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Il gas palestinese dietro l’aggressione di Israele

Abu Mazen stava trattando con Mosca l’affido per lo sfruttamento di due giacimenti nel mare di Gaza. Sospettabili coincidenze nell’operazione “Confini sicuri”.

di Marina Zenobio

Gaza Marine 1 e 2 mappa

La posta in gioco dietro l’aggressione israeliana a Gaza non è solo l’espansione territoriale di Tel Aviv o le risorse idriche. C’è un’altra risorsa in territorio palestinese, o meglio a 36 chilometri a largo del mare di Gaza, probabilmente ancora più strategica: il gas. Sono i giacimenti Gaza Marine 1 e Gaza Marine 2, a trentasei chilometri a largo dalla Striscia e a 603 metri di profondità. Un tesoro sul quale Israele intende mettere le mani ad ogni costo e conteso da quindici anni, dal 1999, da quando l’allora presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Yasser Arafat, firmò un accordo venticinquennale per lo sfruttamento dei giacimenti con la British gas group (Bgg) e la compagnia libanese con sede ad Atene Consolidated Contractors International Company (Ccic).

Riferendosi ai giacimenti di gas scoperti in acque palestinesi, un Arafat ormai ultrasettantenne circondato da imprenditori e giornalisti dichiarò: «È un dono del Signore per il nostro popolo, per i nostri figli. Ci fornirà una solida base per la nostra economia, per costruire una stato indipendente con la santa Gerusalemme come capitale».

L’accordo in realtà era molto poco favorevole per i palestinesi (solo il 10% degli introiti, il restante diviso tra le due imprese private) ma interessante comunque per il nascente Stato di Palestina e soprattutto perché, il primo acquirente di quel gas, sarebbe stato proprio lo Stato di Israele in piena crisi energetica. L’idea che soldi israeliani potessero finire nelle casse dell’Anp era però inconcepibile per Tel Aviv.

Nel settembre del 2000, la provocatoria passeggiata sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, dell’allora capo del Likud Ariel Sharon, fa esplodere la seconda Intifada.

Nel 2001 Sharon, diventato premier, contesta la sovranità palestinese su quei giacimenti e dichiara: “Non accetteremo mai di acquistare il gas dalla Palestina“. Tony Blair, partigiano di Israele, fa pressioni affinché British gas group rinunci al progetto.

Con la morte di Arafat nel 2004, il crollo elettorale dell’Anp e l’arrivo di Hamas al governo il progetto si blocca. Ma la Bgg vuole ancora vendere il gas della Striscia a Israele che, a sua volta, ne ha un gran bisogno. E’ però solo nel 2007 che il governo israeliano accettagiacimento gas l’acquisto del gas palestinese, a patto che i proventi non andranno ai palestinesi stessi. Tel Aviv tenta così di bypassare Hamas e Anp trattando direttamente con la Bgg per far annullare il contratto firmato con Arafat nel ’99 e far arrivare il gas verso il porto israeliano di Ashkelon.

La trattativa però si arena perché la Palestina reclama la sua parte di proventi, come da accordi sottoscritti con Bgg, ma Tel Aviv non ci sta, giustificando la sua posizione con il timore che con i suoi soldi Hamas possa acquistare razzi per colpire le colonie ebraiche. La British gas group non vede via d’uscita e chiude i suoi uffici in Israele, lasciando il paese a becco asciutto.

Pochi mesi dopo, nel dicembre 2008, con una sospettabile coincidenza, Israele lancia contro la Striscia di Gaza l’operazione Piombo fuso, con le sue 1.387 vittime palestinesi. Ufficialmente per scardinare il governo di Hamas, minaccia per la sicurezza di Israele; più verosimilmente perché il movimento islamico non aveva nessuna intenzione di cedere la sovranità dei giacimenti di gas palestinesi.

E arriviamo ai giorni nostri, all’attuale operazione militare israeliana Protective edge, (ad oggi quasi 2000 palestinesi uccisi e 10.000 feriti), in cui lo stesso scenario contro la popolazione gazawi, ancora più catastrofico, si sta ripetendo. Anche in questo caso però si è registrata un’altra sospettabile coincidenza.

Il 27 gennaio di quest’anno Abu Mazen si era incontrato a Mosca con il presidente russo Vladimir Putin, e già scattò l’allarme tra i “servizi” israeliani. Nel corso di quell’incontro il leader palestinese propose ai russi di sfruttare i giacimenti di gas Gaza Marine 1 e 2 in cambio di 2 gazprommiliardi di dollari. Il 2 giugno, la formazione del nuovo governo palestinese di unità nazionale, rafforza la possibilità che l’accordo tra Palestina e Russia diventi effettivo e che la Gazprom si installi nel Mar di Levante, a qualche decina di chilometri dalle coste israeliane. Dodici giorno dopo, il 14 giugno, avviene il non ancora del tutto chiarito rapimento e uccisione dei tre giovani coloni a Hebron, e si scatena l’inferno. Coincidenze?

Sarebbe troppo per Israele che i giacimenti nel mare di Gaza finissero sotto controllo dei russi. Anche perché nel Mar di Levante, nella porzione più orientale del Mediterraneo, quattro anni fa Israele ha scoperto due giacimenti, il Tamar e il molto più importante Lieviathan (238 miliardi di metri cubi di gas naturale di eccellente qualità) che non vorrebbe condividere con nessuno, benché esista una Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare che stabilisce i criteri di attribuzione delle risorse sottomarine, ma sia Israele che gli Stati Uniti non l’hanno mai firmato.

Anche gli altri stati bagnati dal Mar di Levante – Grecia, Turchia, Cipro, Siria, Libano e la stessa Palestina – potrebbero pretendere diritti su quel giacimento. Anzi, il Libano già l’ha fatto, è uno dei motivi di scontro tra Beirut e Tel Aviv. In questo contesto un eventuale arrivo della russa Gazprom, coinvolta dai palestinesi, a largo delle coste israeliane, è qualcosa che lo stato ebraico non può tollerare. Tra i giacimenti a largo di Gaza e il Lieviathan il passo potrebbe essere molto corto.

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