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Davide Bifolco, i carabinieri: «Così li abbiamo fatti cadere»

Nel rapporto dei carabinieri si ammette lo speronamento dello scooter e si insiste sull’inseguimento del latitante. Fabio Anselmo: «Caso difficile dal punto di vista sociale». Sabato Acad a Napoli

di Checchino Antonini

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Dalla Val Susa, Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, manifesta anche per Davide Bifolco

«Il ragazzo è giunto già cadavere in ospedale, erano le tre meno un quarto. Avevamo capito che non c’era nulla da fare», spiega uno degli infermieri dell’ospedale S.Paolo di Napoli che era di turno la notte in cui fu ucciso Davide Bifolco. Allora perché l’hanno prelevato? L’infermiere dice che qualche volta succede, che comunque ci si prova. Ma poi aggiunge che si vedeva che era già morto e che l’ ha affermato anche il rianimatore mentre era pronto con l’ossigeno. «Il foro di entrata del proiettile era all’altezza del torace, il foro di uscita in basso, al corpo delle costole. Vuol dire che il ragazzo stava abbassato, forse per terra», conclude l’operatore ospedaliero che non sa dire se il corpo è giunto con le manette ai polsi o se ne fossero visibili i segni.

Il rapporto stilato quella notte è rintracciabile in rete. Tutto sarebbe iniziato intorno alle 22.30, quando il latitante Arturo Equabile viene segnalato dalla centrale “in sella a un Honda Sh”. La gazzella del Radiomobile continua a cercarlo, fino alle 2.30.

«All’altezza del viale Traiano – si legge – vediamo quel ciclomotore con tre persone a bordo. Li inseguiamo, arriviamo fino al senso rotatorio di via Cinthia e quando loro svoltano, io riconosco seduto proprio in mezzo il soggetto: Equabile». Il carabiniere dice anche di aver scorto «uno scintillìo, che proviene da qualcosa di metallico: il soggetto ce l’ha nella sinistra».

«I ragazzi cercano di superare il cordolo dello spartitraffico, noi gli stiamo dietro, quando lo scooter perde velocità e si arena noi ormai non riusciamo a fermarci e finiamo per toccarli e farli cadere».

Il resto è storia nota scappa: il “latitante” che scappa, Davide è a terra, l’altro ragazzo cerca di fuggire. «Esco dall’auto con la pistola nella destra e il colpo in canna per difendermi. A quel punto, con la mano sinistra trattenevo con la mano sinistra il soggetto che cercava di divincolarsi e con la destra tenevo l’arma. A quel punto sono inciampato sul marciapiede e stando per cadere, ho inavvertitamente fatto esplodere un colpo. Appena mi sono accorto dell’esplosione ho visto l’altro ragazzo che tremava, cadere».

L’inciampo è la più antica delle versioni ufficiali per coprire e insabbiare un omicidio commesso da qualcuno che indossa una divisa.

Dalle colonne di noto quotidiano nazionale arriva, tramite difensore, la voce del carabiniere che insiste sulla versione dell’inseguimento del latitante: «Sono addolorato. Con pudore voglio dire alla famiglia di Davide che chiedo perdono per questa perdita, consapevole che niente e nessuna parola potrà attutire il dolore, che segnerà per sempre anche la mia vita». «Io so – aggiunge il militare – che però questa tragedia è stata la conseguenza impensabile, umanamente inaccettabile, di un incidente. Solo un terribile incidente. Non ho mai puntato la pistola, ho alle spalle dieci anni di lavoro, anche a Verona». «Se avevo il colpo in canna quella notte è perchè io e il mio collega inseguivamo un latitante. Non sono mai stato un Rambo, non ho neanche immaginato di puntare la pistola. Sono inciampato quella notte, mentre bloccavo l’altro giovane che si divincolava. Se si fa una perizia si vedrà che c’è il gradino».

Ma il latitante “Equabile” è un pesce piccolo, uno che non avrebbe mai sparato a nessuno. Aveva senso inseguirlo con il colpo in canna? E perché poi insistere per ricoverare in ospedale un ragazzo morto sul colpo? E perché l’irruzione, di cui abbiamo già parlato, nella sala scommesse i cui avventori s’erano precipitati a vedere la scena e sono stati fatti rientrare con le mani alzate?

DOMANI L’AUTOPSIA Tutto ciò mentre vanno via con lentezza, a Napoli, le operazioni legali successive alla morte diciassettenne, ucciso dal proiettile di un carabiniere perché circolava in tre un motorino e non s’era fermato all’alt. Secondo i testimoni, speronato prima e ucciso mentre era a terra. Secondo i carabinieri, “sospetto” perché uno dei tre sul motorino sarebbe stato un latitante, evaso dai domiciliari. Questo spiegherebbe il colpo in canna del carabiniere ma la tesi sembra essere smentita da un ragazzo che si sarebbe presentato poche ore dopo in questura con le prove di essere proprio lui il terzo, l’unico che la notte di venerdì era riuscito a scappare dopo l’inseguimento.

L’autopsia, prevista per ieri, è stata rimandata a domani perché prima è stata chiesta dalla famiglia una Tac e perché le operazioni di notifica degli incarichi si sono protratte con una lentezza esasperante e fuori dall’ordinaria lentezza della macchina della giustizia.

Ancora ieri sera, dopo giorni di veglie, manifestazioni e scoppi di rabbia, un corteo di ragazzi in scooter ha improvvisato un nuovo corteo per chiedere «giustizia per Davide», il 17enne ucciso da un carabiniere nella notte tra il 4 e il 5 settembre al termine di un inseguimento. Il corteo è partito dal Rione Traiano, ha attraversato Fuorigrotta ed è arrivato a Mergellina dopo aver percorso la galleria di Posillipo. A Mergellina il gruppo si è fermato per dedicare una preghiera alla memoria di Davide Bifolco ed è quindi ripartito. Qualcuno ha spiegato che la dimostrazione era solo contro chi ha sparato non contro l’Arma in quanto tale. E pochi minuti prima di andare on line, uno striscione, «Basta omicidi di Stato. Il ricordo di chi vive nel cuore di chi resta. Ciao, Davide», esposto durante una manifestazione di disoccupati davanti agli uffici della Giunta regionale, è stato sequestrato da un funzionario di polizia che lo avrebbe calpestato.

UN CASO DIFFICILE. ACAD A NAPOLI Non sfugge a nessuno il valore simbolico che incombe sull’eventuale processo per l’omicidio di un diciassettenne incensurato ma residente in un quartiere sottoproletario come il Rione Traiano di Napoli. Lo Stato contro chi si mette in mezzo alle sue pratiche di polizia e tenta di illuminare il cono d’ombra dove due poteri si fronteggiano ogni giorno, spesso con ampie zone di collusione, e con l’ambiguità tipica dei poteri. Stritolati tra queste forze (ed esposti ai commenti infami sui social network che descrivono Davide come una vittima “indegna”) vivono decine di migliaia di persone nei quaertieri ghetto di metropoli come Napoli. Infatti «il caso potrebbe essere molto semplice sul versante giudiziario, quanto complicato sotto il profilo sociale e ambientale», ha detto l’avvocato Fabio Anselmo, legale ferrarese della famiglia Bifolco e che ha assistito in questi anni le famiglie di persone morte o ferite ad opera di forze dell’ordine, da Aldrovandi a Magherini, passando per Cucchi, Uva, Ferrulli, Rasman, Morneghini, Narducci, Diaz, Tura. «Poi il cosiddetto latitante non esiste, non era sul motorino e il colpo di pistola sparato dal carabiniere è inequivocabile, poi se si vuole pensare che quel che è successo non è realmente accaduto, beh, allora ci sono dei problemi». Ad ogni modo, sottolinea il legale, «per me la legge deve essere uguale per tutti: se poi il codice è cambiato, ce lo dicano. Il punto però è un altro e riguarda i “morti di Stato” di cui mi sono occupato. All’inizio sono descritti come drogati (Aldrovandi), spacciatori (Cucchi), stalker (Budroni): tutti inquadrati in categorie sociali che hanno un buon livello di disonore. L’opinione pubblica è distratta e finisce per crederci». «In questi anni – ha spiegato a un quotidiano della sua città – abbiamo accumulato una certa esperienza su una materia particolarmente delicata come la medicina legale e possiamo contare su contatti e conoscenze dirette con professionisti di primo livello». E i processi mediatici, paralleli? «La verità – sostiene Anselmo – è che senza processi mediatici, quelli reali poi non si farebbero, nella grande maggioranza dei casi. Le vicende che hanno grande rilevanza sui media hanno regole completamente diverse dagli altri. L’avvocato deve avere un comportamento onesto e cristallino: solo così si riesce a guadagnare la fiducia dei giornalisti».

La famiglia di Davide, tramite Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, è riuscita a mettersi in contatto con Fabio Anselmo. E Acad sta per dare vita a una raccolta di fondi in rete per sostenere le spese legali e delle perizie che quella famiglia dovrà sostenere. Sabato, proprio a Napoli, ci sarà una cena benefit alla Mensa Occupata con Acad che presenterà alle 19 il video “Perchè non accada mai più – Le morti di Stato”.

NON E’ REATO NON FERMARSI ALL’ALT Vale la pena ricordare una sentenza di Cassazione per cui il guidatore che non si ferma all’alt intimato da un pubblico ufficiale non commette reato: scatta la multa per violazione al codice della strada, ma non la condanna penale per «inosservanza ai provvedimenti dell’autorità». Strepitarono un po’, i sindacati di polizia, quando la Cassazione, nel 2006, annullò senza rinvio, la condanna inflitta dal Tribunale di Palermo nell’aprile del 2004 nei confronti di un motociclista che, procedendo a velocità molto sostenuta, non si era fermato davanti alla paletta rossa dei carabinieri. Inizialmente l’uomo era stato processato con l’imputazione di «resistenza a pubblico ufficiale», poi tramutata in «inosservanza ai provvedimenti dell’autorità», reato previsto dall’articolo 650 del codice penale, per il quale era stato condannato. Il suo avvocato, però, ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo che il verdetto andava annullato «per violazione di legge in quanto nel caso di specie non è applicabile l’art. 650, che ha natura sussidiaria, bensì la violazione amministrativa prevista dall’art. 192 del codice della strada». La Suprema Corte gli ha dato ragione rilevando che è orientamento consolidato che «l’art. 650 è una norma che si applica solo se l’inosservanza a un ordine dell’autorità (impartito per motivi di igiene, sicurezza o ordine pubblico) non è sanzionata da una specifica norma».

 

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