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Gaetano Bresci, cento di questi anni!

Un secolo dopo il regicidio di Gaetano Bresci, una persona si aggira ancora a notte fonda con una scala per le vie di Milano, con un preciso compito. Lo si scoprirà poi guardando il TG3 del mattino…

di Giuseppe Ciarallo

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29 luglio 1900, alle 22.29 Gaetano Bresci, anarchico pratese emigrato negli Stati Uniti, porta a compimento il suo progetto di vendetta per quale era tornato appositamente dall’America. Vendicò le vittime delle cannonate di Bava Beccaris nella Milano del 1898, uccidendo a Monza Umberto I, altresì noto come “re buono”. “Ho agito da solo. L’ho fatto per vendicare le vittime pallide e sanguinanti di Milano… Non ho inteso uccidere un uomo, ma un principio”. Lo ricordiamo col racconto di uno scrittore, Giuseppe Ciarallo apparso su A rivista anarchica nel 2011 e ora inserito nella nuova raccolta di racconti “Le spade non bastano mai”, edizioni PaginaUno, di cui torneremo presto a scrivere su Popoff

Milano, 29 luglio 1900

Guardatelo il grand’uomo. Il re buono. Colui che ama il suo popolo sopra ogni cosa. Il padre giudizioso e severo che sa dispensare ai suoi pargoli rimproveri e carezze in egual misura. Furon scappellotti i proiettili contro le genti inermi di Sicilia nel gennaio del ’94. E semplici rabbuffi di un genitore indignato le fucilate che falcidiarono otto miei fratelli ferendone a centinaia a Carrara lo stesso mese e anno dei fatti siciliani. Le cannonate del vile assassino Bava Beccaris? Sculacciate a mocciosi disubbidienti, sculacciate forti però, tanto da lasciarne a centinaia sul selciato, tra morti e feriti. Monelli indocili e irriconoscenti i milanesi del maggio ’98, e ingrati pure, incapaci di sopportare il morso della fame causata dalle folli e inutili guerre di conquista in terra d’Africa, dagli scandali bancari e da incompetenti piazzati nei luoghi di comando solo per poter abusare della loro ottusa autorità. È per voi, fratelli siciliani, per voi, pallide vittime sanguinanti di Milano che oggi il figlio del popolo farà vendetta giustiziando il padre buono, colui che si è macchiato del più orribile dei delitti, seminando morte e distruzione tra il suo popolo. E dopo risuonerà alto solo l’inno della rivolta: per le vittime tutte invendicate, là nel fragor dell’epico rimbombo, compenseremo sulle barricate, piombo con piombo. E voi, sfortunati fratelli Passanante e Acciarito, non abbiate timore, la mia mano sarà più ferma della vostra; e poi, il vostro errore ha insegnato che più di un pugnale può una pistola a ripetizione. Guardateli i ginnasti, impettiti nelle loro divise. Forti e liberi dicono di essere. Inermi e sottomessi dovrebbero portare impresso sulle loro maglie, come il popolo da cui provengono, come l’uman carname che li ha generati. Ecco, la premiazione è finita. Lui sta salendo sulla sua carrozza, i cavalli ciondolano la testa nell’attesa. Bene, ora sporgiti verso la folla, ben ritto in piedi, saluta il tuo popolo, re buono, così. Viva l’anarchia! ORA!!!”

Milano, 29 luglio 2000

La radiosveglia aveva cominciato a gracchiare all’ora stabilita. Numeri e lettere bucavano fastidiosamente il buio con un bagliore rosso intermittente: 29.07.2000 H. 03:00.

Libero allungò un braccio e pose fine, con una secca manata, a quello strazio sonoro. Tempo un secondo, e anche la suoneria del cellulare, puntata per sicurezza alla stessa ora, fece partire le toccanti note de L’inno della rivolta. Ancora mezzo addormentato, e con la bocca impastata, farfugliò d’istinto “… fragor de l’epico rimbombo… piombo con piombo…”.

Poi, come se una molla lo avesse d’improvviso caricato, si tirò su di scatto. “È ora” mormorò tra sé e sé s-ciabattando verso il bagno.

Nel chiudere dietro di sé la porta di casa, guardò l’orologio: le tre e venti. “Devo sbrigarmi” disse affrettando il passo verso i box del palazzo in cui abitava “ho da pedalare per una buona ventina di minuti!”.

Cercando di fare meno casino possibile, tirò su la porta basculante del minuscolo box. Spinse fuori la vecchia e pesante bicicletta nera dai freni a bacchetta, poi portò all’esterno la scala di legno da attacchino, alta quasi quattro metri. Infine controllò il contenuto di una busta di plastica: un barattolo da un chilo di stucco da muro, color bianco sporco, e una spatola di ferro, flessibile e robusta, col manico in legno di faggio.

“Bene. C’è tutto. Ora si tratta di prendere il ritmo in bicicletta con ‘sta cazzo di scala. Meno male che a quest’ora…”.

Zigzagando all’inizio, nel ridicolo tentativo di trovare il giusto assetto, attraversò viale Abruzzi tirando moccoli a non finire. Già prima di giungere in corso Buenos Aires l’agognato equilibrio era stato raggiunto, tanto che imboccando viale Tunisia, Libero aveva cominciato a fischiettare soddisfatto. Un quarto d’ora dopo, addirittura, passando davanti al Cimitero Monumentale, sprigionava tutto il suo buon umore zufolando allegramente le note di Addio Lugano bella.

In piazza Diocleziano s’incupì trovando vergognoso il fatto che fosse stata intitolata una strada al boia Mac Mahon, il generale dell’esercito francese che si era distinto per ferocia nel massacro di comunardi, in quel triste maggio parigino del 1871. Cominciò, allora, a cantare a squarciagola, non prima di essersi accertato che non ci fossero macchine della madama nei dintorni. “Non siam più la Comune di Parigi, che tu borghese schiacciasti nel sangue…”. Ricordando poi il motivo per il quale era in strada a quell’ora, trovò più saggio abbassare la voce, quasi sussurrando le strofe successive: “Non più gruppi isolati e divisi, ma la gran classe dei lavorator”.

Girando in via Biondi, sorrise voltando lo sguardo a sinistra, verso Stalingrado, la birreria che negli anni ’70 era uno dei mille punti di ritrovo di quel magma incandescente che ribolliva a sinistra del PCI.

In piazza Zavattari fece la rotonda e girò a sinistra imboccando viale Murillo. “Ancora duecento metri e ci siamo” disse aumentando il ritmo della pedalata.

Giunto nella piazza, meta del suo notturno girovagare, aveva appoggiato la scala e la bicicletta al muro e si era acceso una sigaretta per raccogliere i pensieri e organizzare l’azione. Macchine in giro, quasi niente. A quell’ora la laboriosa Milano riposava tranquillamente o faceva finta di farlo, nell’attesa, da lì a un paio d’ore di scatenare come ogni mattina puntualmente accadeva, il ritmo nevrotico e insensato per il quale andava incomprensibilmente fiera.

Libero gettò a terra il mozzicone, si spostò sotto un lampione e sfilò da un taschino un foglio di carta sul quale aveva disegnato una piantina e dei numeri. “Dunque, le opere da restaurare sono quindici” disse con lo sguardo rivolto al muro, in alto, appena sopra l’insegna del bar d’angolo. “Ci vogliono circa tre minuti per salire in cima, effettuare il ritocco, scendere e spostare la scala al marmo successivo. Tre per quindici… tre quarti d’ora buoni di lavoro”. Si guardò in giro per l’ennesima volta. Nessuno. “Bene, all’opera”.

La lettera dell’alfabeto che più amo

Appoggiò l’apice della lunga scala proprio a fianco della targa indicante il nome della piazza, poi si chinò e raccolse, con la lamina, lo stucco necessario alla bisogna. Salì con molta attenzione i pioli uno ad uno, e una volta arrivato in cima con un rapido e preciso colpo di spatola cancellò l’ultima lettera della toponomastica incisione. Ridiscese sorridendo. “Per uno strano scherzo del destino, mi ritrovo a dover cancellare proprio la lettera dell’alfabeto che più amo: la A”.

Spostò la scala alla targa successiva preparandosi a ripetere lo stesso gesto per le programmate quindici volte. A metà dell’opera, otto “restauri” erano già stati eseguiti, Libero si trovò faccia a faccia con un vecchietto, che appoggiato al davanzale di una finestra del primo piano, sigaretta penzolante dall’angolo della bocca, lo guardava con due occhi sfondati da un sonno che non ne voleva sapere di cullarlo tra le sue braccia. “Opere comunali” disse Libero con sicurezza, spalmando l’ennesima passata di stucco. Il nottambulo si limitò ad annuire e gettò il mozzicone in strada. Scendendo, Libero lo sentì biascicare: “Sai quanto me ne frega delle tue opere comunali. Qui se non riesco a prender sonno…”.

Alle cinque meno cinque il restauro, come Libero aveva definito la sua azione, era terminato. Libero, al centro della grande piazza, piantando un tallone nel terreno fece un giro di 360 gradi su sé stesso, per rimirare l’opera compiuta, per godersi il chiarore di un’alba che timidamente dava la sveglia alla sua città, per ascoltare il rumore del traffico che a quell’ora non era ancora così fastidiosamente insopportabile.

C’era un’ultima cosa da fare, per completare l’opera. “Nella società dell’immagine, se non appari non esisti”. Compose un numero sul suo telefono cellulare e attese qualche istante.

Una voce catramosa grugnì, con tono di fastidio, un “Pronto?” che avrebbe dissuaso chiunque dal continuare la conversazione.

“Oh! Errico, missione compiuta!”

“Ma… chi cazzo parla?”

“Errico! Sono io, Libero… missione compiuta! Tuo padre, buonanima, sarebbe fiero di me!”

“Libero! Ma che cazzo c’hai nella testa, le pigne? Lo sai che ore sono?”

“Senti stronzetto, lo sai, TU, che giorno è oggi? È il 29 luglio del 2000. Sono passati giusto cento anni e io sono in piedi dalle tre! E mi sono fatto un culo così, tutto da solo. Ti avevo detto che lo avrei fatto e l’ho fatto! Per cui alza le chiappe e arriva qui con la tua cazzo di telecamera, prima che qualche zelante cittadino se ne accorga e chiami i ghisa!”

“Ok! Ok Libero, non t’incazzare. Dammi un’oretta e sono lì.”

Da Milano è tutto, a voi studio

Alle sei e trenta una troupe del TG Regionale, cameraman e commentatore, effettuava uno strano servizio da uno dei punti più trafficati della circonvallazione milanese:

“Oggi, 29 luglio 2000, ricorre il centenario di un fatto storico ormai da tempo finito nel dimenticatoio, ma che ha segnato la storia d’Italia nel difficile passaggio dal diciannovesimo al ventesimo secolo: nel parco di Monza, durante la premiazione di un concorso ginnico, il 29 luglio del 1900 veniva ucciso re Umberto I, per mano di un anarchico partito dalla cittadina statunitense di Paterson con l’intenzione di punire il monarca, reo di aver soffocato nel sangue la rivolta delle classi popolari che in tutta Italia nel maggio 1898 manifestavano contro l’aumento insostenibile per i più, del prezzo del grano e dunque del pane. Nella sola Milano, l’esercito regio guidato dal generale Fiorenzo Bava Beccaris, provocò più di ottanta morti e quattrocento feriti, usando i cannoni contro la folla dei manifestanti. Il nome di quell’anarchico è Gaetano Bresci, ed oggi, qualche buontempone ha voluto ricordare l’evento intitolando la piazza al regicida” la telecamera era passata lentamente dal primo piano sul cronista, via via più in alto ad inquadrare la targa della piazza; la voce era, adesso, fuori campo. “Immaginiamo che il Comune provveda celermente a rimettere le cose a posto, ma almeno per un giorno Milano non avrà il suo tradizionale piazzale Brescia, bensì un anticonvenzionale, anarchico… Piazzale Bresci. Da Milano è tutto, a voi studio”.

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