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Caporetto, vittoria del Belpaese

Nonostante l’attitudine del Belpaese ai disastri militari quella del 24 ottobre 1917 resta sinonimo di sconfitta. Anzi no, per l’italietta mai doma e piagnona

di Maurizio Zuccari

Rumiz traccia le tappe del suo viaggio. In hp prigionieri italiani a Caporetto
Rumiz traccia le tappe del suo viaggio. In hp prigionieri italiani a Caporetto

Alla fine, a Caporetto abbiamo vinto. È una vulgata non nuova quella che prende corpo nel centenario della più grande disfatta militare italiana. Abbiamo vinto perché, nonostante gli errori-orrori degli alti comandi e il tracollo dei fantaccini al fronte, proprio da quella sconfitta l’Italia è ripartita per risorgere sulle sue ceneri. E un anno dopo trionfare sul Piave, spazzando via gli Asburgo dalla mappa della storia con la vittoria di Vittorio Veneto, inaspettata come quella rotta. A dire che in fondo quella batosta ci è servita non è solo l’ultimo saggio di Stefano Lucchini, A Caporetto abbiamo vinto, presentato oggi alla Camera, a cento anni esatti dall’inizio di quella battaglia, e un nutrito codazzo di storici e commentatori. Già Giuseppe Prezzolini in Dopo Caporetto aveva rovesciato le parti e la narrazione: la rotta seguita alla dodicesima battaglia dell’Isonzo era una vittoria e Vittorio Veneto, al contrario, una sconfitta.

Scriveva Prezzolini: «Se volessi esprimermi paradossalmente, direi che Caporetto è stata una vittoria, e Vittorio Veneto una sconfitta per l’Italia. Senza paradossi si può dire che Caporetto ci ha fatto bene e Vittorio Veneto del male; che Caporetto ci ha innalzati e Vittorio Veneto ci ha abbassati, perché ci si fa grandi resistendo ad una sventura ed espiando le proprie colpe, e si diventa invece piccoli gonfiandosi con le menzogne e facendo risorgere i cattivi istinti per il fatto di vincere». Ai luoghi simbolo della Grande guerra il fondatore della Voce – intimo di Mussolini, con cui collaborò al Secolo d’Italia, interventista convinto e ardito sul Monte Grappa proprio dopo Caporetto – dedicò nel suo libercolo del 1919, scritto a caldo degli eventi, un reportage.

E nello spirito del reportage s’è mosso Paolo Rumiz, in uno di quei racconti di viaggio (La strada di Rommel, da oggi in edicola) che allietano l’animo dell’autore e la saccoccia dell’editore, oltre a dilettare il lettore. Rumiz alla Prima guerra mondiale ha già dedicato un bel racconto di minor fortuna: Come cavalli che dormono in piedi (Feltrinelli, 2014), sull’epopea dei centomila fanti austroungarici delle terre irredente mandati a morire sul fronte russo, prima contro lo zar e poi contro la rivoluzione, e rimossi dalla storia. Stavolta il reporter di Repubblica per raccontare Caporetto – oggi Kobarid, in Slovenia – s’è mosso sui passi del giovine Rommel, che col grado di tenente comandò un pattuglione avanzato (poi battaglione) capace d’infiltrarsi tra le linee italiane e di marciare a zigozago sulle creste del Kolovrat e del Matajur, catturando la bellezza di 9mila soldati e schiantando un’intera brigata, la Arno, al prezzo di sei soli uomini. Lo stesso Rommel dedicò a quell’impresa un saggio – pure la futura Volpe del deserto scriveva – Fanteria d’attacco, scritto nel ‘37 per l’accademia militare di Dresda (edito in Italia nel 2013 dalle edizioni Leg), ma neppure lui seppe spiegarsi i perché di quell’immane disfatta, lo sciogliersi come neve al sole dei reparti italiani, nell’ignavia degli alti comandi.

Figurarsi noialtri, intenti alla rimozione e al pianto per quella passata alla storia come sconfitta epocale, in buona compagnia: da Lissa (1866) ad Adua (1896), dalla rimossa rotta di Beda Fomm del 1941, che nulla ha da invidiare a quella del ‘17, all’8 settembre ‘43. Nonostante l’attitudine del Belpaese ai disastri militari Caporetto resta sinonimo di sconfitta, da alleviare appunto rovesciandola nel suo contrario, prodromica alla vittoria, seppur mutilata. Una rotta che ebbe le sue cause, militari e umane. Dalla nuova tecnica di combattimento dei tedeschi che infiltrarono piccoli nuclei tra le trincee italiane (come quello di Rommel) ridotte al silenzio dai gas e coperti dalla fitta nebbia, all’impreparazione dei comandi. Che pure avevano ricevuto indicazioni dai servizi di spionaggio e dai disertori sull’imminenza dell’offensiva coi rinforzi provenienti dal fronte russo, tracollato sotto i colpi della rivoluzione – il controgolpe di Kornilov era fallito a settembre e Kerenskij era intenzionato a porre fine alla guerra – e non seppero pararla. Il massone Badoglio, tra i massimi responsabili della sconfitta con Cadorna e Capello e l’unico a non essere toccato, ce lo ritroveremo a fare altri danni, nei decenni a seguire.

Ma l’aspetto peculiare di quella rotta l’ha colto prima e meglio d’altri Alessandro Baricco in Questa storia (Fandango, 2005). Soldati abituati a tre anni d’eroismi e orrori in trincea s’arresero in massa quando qualcuno si presentò loro di spalle sventolando un fazzoletto bianco. Il nemico erano abituati ad averlo davanti, non dietro. Una questione di mentalità, come quella degli alti comandi che mandavano al massacro uomini a ondate, a centinaia di migliaia, in un’inutile guerra di posizione. Quanto agli scampati dei 40mila che non vennero ammazzati o feriti in quella rotta, ai 250mila che non furono fatti prigionieri, nessuno a sinistra si prese la briga di fare di loro quel che i bolscevichi stavano facendo in Russia, trasformare la guerra imperialista in rivoluzione. E i regi carabinieri non tardarono molto a rimetterli in riga con fucilazioni e decimazioni di massa. Orfane d’una sinistra senziente, ora come allora, le masse italiane in armi persero il momento più rivoluzionario del Novecento – l’altro si sarebbe presentato nel ‘45 e, sotto l’egida del Pci, sarebbe naufragato altrettanto presto, del terzo è meglio tacere – ma avrebbero gettato le basi alla futura vittoria dell’italietta mai doma e piagnona, cara alla vulgata. La narrazione continua.

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