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«Non siamo ancora la Cisl. In Cgil ma all’opposizione»

All’indomani del congresso, parla Sergio Bellavita, coordinatore della minoranza Cgil ‘Il sindacato è un’altra cosa’

di Checchino Antonini

"Non siamo ancora la Cisl. In Cgil ma all'opposizione"

Ha senso stare ancora nella Cgil dopo l’accordo del 10 gennaio? Credo sia una domanda preliminare, da cui iniziare questa intervista a Sergio Bellavita, dopo una vicenda congressuale che ha registrato il massimo storico della caduta di consenso verso la confederazione. Giorgio Cremaschi ha appena scritto che «il caso sindacale italiano degli anni 70 del secolo scorso si sta rovesciando oggi nel suo opposto». Dal suo punto di vista, quando Renzi si chiede «dov’era il sindacato quando la disoccupazione è passata dal 7% al 13%» prende atto di una caduta che s’è consumata e prova a sfruttarla per il suo progetto restauratore.

Credo che il caso sindacale italiano, o meglio l’anomalia che ha fatto dell’italia un modello di conquiste sociali e politiche sia sopratutto il frutto della lunga stagione dei movimenti che ha caratterizzato il nostro paese per circa un decennio. Senza la poderosa spinta dal basso contro le liturgie degli apparati della sinistra istituzionale, senza quella radicalità che ha imposto pratiche e rivendicazioni di rottura, quelle conquiste non ci sarebbero state. Il sindacato ha dapprima tentato di resistere alla spinta di nuove generazioni che volevano lottare contro il sistema, il padrone, lo stato, poi ha dovuto aprirsi e accogliere in parte istanze che mal si conciliavano con la pratica e gli orizzonti limitati della normale iniziativa sindacale. Bisogna riconoscere che l’esplosione dei movimenti è stata tuttavia anche il risultato della lunga lotta della Cgil per l’emancipazione del mondo del lavoro dalle subordinazioni imposte dal modello corporativo fascista ereditato quasi intatto alla fine della guerra. Una lotta vinta nel 1969 con l’affermazione del contratto nazionale. L’anomalia italiana è stata possibile grazie a questo combinato disposto. Anche nel passato la Cgil era un’organizzazione burocratica, ma lo spessore dei suoi gruppi dirigenti non è neanche rapportabile a quello attuale. Oggi la Cgil produce rassegnazione, passività, subcultura politica e sindacale. Grossa parte dei dirigenti Cgil non sanno neanche più costruire uno sciopero, parlare in assemblea. Ha ragione Cremaschi, quell’anomalia si è rovesciata nel suo opposto. Siamo il paese a più alto tasso di passività sociale nel quadro europeo. Probabilmente la rappresentanza politica e sociale del lavoro ha ritenuto necessario mostrare particolare servilismo per accreditarsi presso il grande capitale, quasi emanciparsi da un passato divenuto improvvisamente poco europeo, quasi imbarazzante. Da questo punto di vista Renzi rappresenta la fine di quel processo di emancipazione, la vera cesura con il tradizionale collateralismo e consociativismo governo sindacati che nemmeno Berlusconi ruppe mai davvero. Il presidente del consiglio disvela impietosamente l’irrilevanza di Cgil, Cisl e Uil sulla condizione di lavoratori e pensionati, la sfrutta per il suo progetto reazionario. La Camusso che saluta il trionfo del Pd, salendo anche lei sul carro di Renzi, lo aiuta. La domanda sul senso della nostra appartenenza alla Cgil va posta in altro modo. Qual è il senso del fare sindacato oggi? La vera grande domanda che dovremmo porci fuori da ogni schema retorico. L’annichilimento del sindacato e il processo che lo pretende corporativo e aziendalistico hanno dimensioni che vanno ben oltre il nostro paese e la Cgil. Come ricostruisci un’iniziativa sindacale che riesca davvero a rispondere ai bisogni. Questo è il tema su cui dovremmo ragionare maggiormente.

Perché la crisi riguarda tutti i modelli sindacali, nessuno escluso. Noi abbiamo attraversato il congresso per portare nei luoghi di lavoro la feroce critica sulle responsabilità del gruppo dirigente, sulla necessità di un nuovo ciclo di lotte. Per noi il baricentro dell’iniziativa non traguarda all’occupazione di poltrone, all’asfittico dibattito interno. Lavoriamo all’ipotesi concreta di ricostruzione del conflitto sociale, con tutti coloro che ci stanno. La ragione del nostro permanere in Cgil non è legata alla dimensione dell’organizzazione, al suo insediamento. Altrimenti molti di noi dovrebbero militare nel partito democratico. La ragione di fondo è che in Cgil non si è ancora chiusa quella contraddizione che impedisce la definitiva cislizzazione. Nel congresso hanno tentato di normalizzare definitivamente i gruppi dirigenti, non ci sono riusciti. Lo scontro Camusso Landini è parte di questa contraddizione aperta. L’accordo del 10 gennaio salterà, ne sono certo. Finché non verrà stravolta la Costituzione non riusciranno a imporre un modello autoritario e corporativo.

Proviamo, prima di proseguire, a dare una definizione di “cislizzazione”.

Mi riferisco con quel termine al processo di progressiva assimilazione della Cgil al modello Cisl con la conseguente perdità di antagonismo, di valori come giustizia sociale e uguaglianza. Valori che ordinavano la normale attività sindacale dentro l’idea di un’altra società. La Cisl è il sindacato delle compatibilità, un sindacato di servizio, che assume cioè la centralità dell’impresa e del mercato, senza alcuna alterità con il capitale.

Allora torniamo al congresso.

Sì, la mozione alternativa (“Il sindacato è un’altra cosa”) ci ha consentito di entrare in contatto con decine di migliaia di iscritti, di portare avanti una critica feroce, esplosiva, al gruppo dirigente in rottura netta con le regole non scritte di bon ton. Le centinaia di quadri che l’hanno sostenuta e che hanno conquistato una rappresentanza negli organismi dirigenti sono un patrimonio prezioso. Il consenso alla nostra proposta ed alla nostra denuncia è andato ben al di là delle aspettative. Il congresso ha sancito l’ulteriore spostamento a destra con l’approvazione dell’accordo del 10 gennaio e con la ricostruzione dell’unita a prescindere con Cisl e Uil. Tuttavia è un equilibrio assai instabile. La dimensione della crisi della Cgil, lo scontro interno, il rapporto con il governo possono rapidamente mandare in frantumi quell’equilibrio.

L’Usb, però, insiste molto sull’irriformabilità della Cgil.

Parlavamo di irriformabilità della Cgil anche nei primi anni 90. Non abbiamo cambiato idea. Non credo all’autoriforma. Non saranno mai i gruppi dirigenti a riformare l’organizzazione che controllano. Un dato comune a tutte le organizzazioni. Il problema è come si attraversano i luoghi di lavoro e i luoghi del sindacato, come si ricostruisce il conflitto: solo con una spinta dal basso è possibile imporre scelte diverse. Cioè come riconquisti il sindacato alla pratica sui bisogni di chi rappresenta.

Tutto ciò, però, avviene dentro una crisi anche organizzativa della confederazione. Gli iscritti calano, così anche le quote tessera, si fa fatica a mantenere l’apparato, le assemblee registrano la diserzione e il disincanto dei lavoratori e anche degli iscritti. Si può dire che Berlusconi, Grillo e Renzi abbiano posto l’assedio al senso stesso del sindacato.

Infatti è una crisi profonda e che, dopo l’esito delle europee, rischia di diventare esplosiva proprio perché il vincitore, Renzi, sbeffeggia l’irrilevanza della Cgil e vuole accelerare il suo processo restauratore. Le “grandi riforme” non sopportano l’esistenza di un contropotere. Quel 40% al Pd, come si evince dalle dichiarazioni di queste ore, cancella ogni minoranza, se mai fosse esistita, nel Pd e restituisce un quadro desolante. Così la Cgil vive tra nostalgie della concertazione (che, per i danni fatti ai lavoratori, nessun altro rimpiange) e l’assenza di spinte rivendicative. E’ una crisi di risultati e di strategia che il congresso non attenua perché non ha deciso nulla.

Ma di questo c’è consapevolezza tra i vari livelli dei quadri dell’organizzazione?

Ne sono tutti consapevoli. In ogni corridoio ci si lamenta dell’incapacità a incidere della Cgil, della sua marginalizzazione. Si passa dalla firma di un “grande accordo” a un altro ma non si ha più la forza, la volontà e la capacità di intervenire sulle condizioni dei lavoratori. Ma il malpancismo dei corridoi non sfocia in una discussione vera. Solo noi e in parte Landini abbiamo sollevato pubblicamente il tema della crisi che riguarda anche la sinistra politica.

Parliamo della mozione alternativa.

E’ stata un’esperienza straordinaria: per la prima volta dopo anni è stata disponibile una piattaforma alternativa per la vita dell’organizzazione, una posizione netta, radicale, di classe, non interlocutoria con il gruppo dirigente. E su questo abbiamo attirato energie nuove, scoprendo una disponibilità non piccola tra i lavoratori nonostante un quadro di iscritti abbastanza disgustato dalle scelte del suo sindacato. Alcuni, tra i lavoratori più delusi, hanno già abbandonato la Cgil e il dato sulla scarsa partecipazione alle assemblee congressuali la dice lunga sulla disaffezione della base. Tuttavia, là dove siamo riusciti ad essere presenti, abbiamo ottenuto risultati ben superiori alle aspettative e alla nostra dimensione iniziale. Spesso abbiamo registrato punte del 20% dei consensi nei congressi di base, lì dove siamo riusciti a essere presenti, come sai avevamo tanti disponibili a candidarsi per il nostro documento ma non certo sufficienti a coprire le decine di migliaia di psti di lavoro toccati; eppure in tanti luoghi di lavoro dove la totalità dei candidati e della Rsu stava con la Camusso noi abbiamo vinto, anche senza nessun candidato interno. Ovunque. Oppure è capitato anche che i delegati Rsu, candidati d’ufficio dalla maggioranza nella lista Camusso, nel corso del dibattito siano passati con noi. Certo, ci siamo dovuti misurare con i limiti del nostro insediamento ma i 40 mila iscritti che hanno votato per la mozione alternativa non sono poca cosa, lavoratrici e lavoratori che ci hanno dato mandato per continuare a confliggere contro Confindustria e contro i governi. Soprattutto per continuare a lottare contro le scelte del gruppo dirigente.

Avete anche presentato un dossier sulle irregolarità congressuali. Quanto hanno pesato i brogli nella conta finale?

C’è quel dossier e c’è anche una denuncia formale. Pensa che ad oggi non abbiamo ancora i dati disaggregati sulle assemblee di base. Il fatto dei brogli ha pesato molto. Lì dove eravamo presenti la partecipazione media non superava il 25% degli iscritti ma nelle assemblee dove c’era il solo relatore di maggioranza la partecipazione “magicamente” schizzava all’80% e più. Molti hanno così costruito a tavolino il loro congresso. A volte hanno deciso di non svolgere nemmeno le assemblee congressuali di base, un milione di iscritti è rimasto tagliato fuori dal congresso. Si tratta degli stessi numeri denunciati dagli emendatari (l’area Landini, ndr). Ora stiamo valutando come proseguire nella denuncia di come è stato gestito e contraffatto il voto. Il rispetto delle regole dovrebbe essere l’abc dello stare insieme.

Abbiamo citato gli emendatari, qual è stato il ruolo della Fiom in questo congresso?

C’è stato un momento in cui sembrava che i metalmeccanici potessero assumersi il ruolo di supplenza politica nella ricostruzione di un movimento di massa contro l’austerity e il padronato, impersonificato da Marchionne. Poi la decisione di Landini di rientrare in maggioranza. Ora proprio lui dovrebbe riflettere sul fatto che se fosse stato a capo di un cartello ampio di opposizione, la maggioranza avrebbe fatto grande fatica a reggere. Invece, da quella maggioranza è stato cacciato solo dopo l’accordo del 10 gennaio. Con un’opposizione larga, forse, quell’accordo non sarebbe stato firmato.

Così Landini ha dovuto cambiare linea in corso d’opera. Resta l’interrogativo sulle ragioni per le quali – ben sapendo quale fosse il proprio ascendente su ampi settori di società – il leader della Fiom abbia compiuto un percorso non di aperta opposizione.

Esiste una tradizione di lunga data, nella Cgil, che avversa la costruzione di posizioni alternative organizzate, perché ritenuta una separazione, uno steccato che impedirebbe la libera dialettica dentro i gruppi dirigenti. La stessa accusa di inefficacia si può facilmente rivolgere alle strategie che contemplino l’internità al gruppo dirigente. La “terza via” – tra l’adeguamento alla maggioranza e la conflittualità interna – non ha mai pagato. La Cgil è stata sorda a tutte le istanze della Fiom. Solo un conflitto aperto e pratiche conseguenti potevano e possono fermare la deriva della Cgil. Il conflitto aperto chiama in causa il protagonismo di quadri e lavoratori senza il quale esistono solo congiure di palazzo.

Credo che Landini abbia fatto la sua scelta già nel 2010 quando, dopo il 16 ottobre, giorno della grande manifestazione dopo il No di Pomigliano, aveva la legittimità per mettersi a capo, con la Fiom, di un movimento di ricomposizione che avrebbe dovuto mettere in conto perfino l’ipotesi di una rottura con la Cgil. Invece iniziò un progressivo, inarrestabile rientro nell’alveo della maggioranza. Fu un errore.

Poi è arrivato, a scardinare quel cammino di Landini, l’accordo del 10 gennaio.

Il tentativo di rientrare in maggioranza da parte di Landini si è interrotto con la firma dell’accordo del 10 gennaio. Tuttavia c’è stato prima l’accordo del 31 maggio 2013, il vero spartiacque nella storia della Cgil porta quella data. In quell’accordo si costruiva il sistema corporativo e autoritario che accoglieva completamente il modello Marchionne estendendolo a tutti i lavoratori. Landini lo ha salutato, ahinoi, positivamente perché pensava di poter gestire, nell’autonomia della categoria, gli aspetti più deleteri. L’accordo del 10 gennaio, il Testo unico sulla rappresentanza, ha aggiunto, a quanto definito da quello del maggio 2013, le regole appllicative, cancellando cosi quello spazio di manovra su cui puntava Landini.

Un accordo prescrittivo perché impone, ad esempio, la definizione di eventuali sanzioni per i delegati disobbedienti in sede di contratto nazionale. Un accordo, in definitiva, che serve a impedire che si ripresenti in futuro, l'”anomalia” della Fiom.

Cosa cambia nel paesaggio interno l’irruzione degli emendatari col 17%?

L’80% è comunque una maggioranza con numeri blindati sebbene, al momento della rielezione con voto segreto della Camusso, sia venuto a galla un certo malpancismo anche tra le sue fila. In questo senso la situazione è più delicata perché, nel combinato disposto con Renzi e la sua rottamazione rischia di crearsi una situazione favorevole alla congiura di palazzo. Anche la battaglia per il pluralismo nella formazione delle commissioni dimostra che Landini disporrebbe di un’influenza anche superiore al suo 17%. Noi ci auguriamo che gli emendatari decidano di passare in modo organico all’opposizione (per ora il loro orientamento non è questo) ma, su alcune battaglie, è già possibile un fronte comune. In ogni caso senza una profonda ricostruzione di pratiche conflittuali da parte della Fiom non sarà possibile alcuna unità organica. Siamo all’opposizione anche in Fiom e anche sull’accordo del 10 gennaio abbiamo punti di vista diversi su come contrastarlo. Per noi va cancellato, non si può emendare. D’altronde, per fare una battuta, la scelta di emendare non ha pagato, anzi. Probabilmente se Landini avesse fatto il documento alternativo l’accordo del 10 gennaio non ci sarebbe stato.

Che relazione ci sarà con il sindacalismo conflittuale, che si trova in un’impasse non meno di quello confederale?

Anche rispetto al sindacalismo di base, noi crediamo sia l’ora di un fronte comune con tutte le forze e tutte le anime che lavorano per la ripresa del conflitto sociale e in questo senso stiamo lavorando per la manifestazione del 28 giugno che aprirà il controsemestre popolare. Questa relazione è il punto vero della nostra iniziativa se non vogliamo impantanarci nella discussione sterile all’interno dei gruppi dirigenti della Cgil. A tutti chiediamo di costruire una sinergia perché il processo di ricostruzione del sindacato di classe è appunto un processo, non un evento organizzativo.

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