Sono giovani del Sud, precari: avvocati schiavi, architetti saltuari, camionisti senza salario, pubblicisti pagati una miseria. Crescono in incertezza e povertà.
di Mario Conforto
Non sono le tradizionali tute blu dei metalmeccanici che affollano le sale delle assemblee dei sindacati. Sono giovani archeologi, interpreti, architetti, traduttori, avvocati, bibliotecari, promotori finanziari. Donne e uomini che tentano di aprirsi un varco nella giungla spesso sbarrata degli ordini professionali e che vengono incasellati sotto la categoria dei professionisti, accanto ad affermati baroni delle diverse specialità. Si tratta di quattro milioni e trecentomila professionisti con pochi diritti e tutele e un reddito mensile medio pari a settecentocinquanta euro. E le donne, prevalenti tra le tute bianche, percepiscono redditi inferiori: in media seimila euro in meno all’anno tra le partite Iva. Tra le donne parasubordinate quelle nella fascia d’età tra quaranta e cinquantanove anni hanno un taglio di tredicimila euro di compenso annuo rispetto ai maschi. I ragazzi di cui abbiamo raccolto le testimonianze hanno chiesto di restare in anonimato. Descrivono la loro condizione di incertezza dopo tanti anni di studi.
Antonella vive a Napoli. Ha trent’anni ed è tirocinante nella sede centrale dell’Agenzia delle Entrate di Napoli. La sera a servire in un pub al centro storico; sabato e domenica, invece, in un bar. Bilancio di fine mese: ottocento euro e zero tempo libero. Vive in un monolocale con angolo cottura nei quartieri spagnoli. L’arredo è composto da un minimo indispensabile per contenere gli abiti e le scarpe. «Non mi posso permettere tanto». È stata lasciata dal fidanzato tre mesi fa. «Non riuscirò a comprare mai una casa; non potrò mai permettermi di avere una famiglia e avere dei figli; se continua così con tutta probabilità non possiederò mai neppure un’automobile. Laurea triennale specialistica e master in economia. Inizio la mia carriera con un fantastico tirocinio. Svolgo il lavoro di funzionari strapagati incapaci di aprire un foglio Excel. Percepisco il rimborso di soli duecento euro al mese. Se ti ammali ti vengono scalati dal salario i giorni di assenza. Contemporaneamente alla mia attività di stagista a tempo pieno faccio la cameriera in un pub di Napoli; tre ore al giorno per sei euro l’ora. Sabato e domenica mattina, dalle sei alla quindici, svolgo la barista in periferia: sette euro l’ora. In totale riesco a racimolare circa ottocento euro. L’affitto è di trecentocinquanta per una camera singola. Poi è arrivato il primo contratto: a progetto, tre mesi, per mille euro; ma non si può abbandonare il pub e la caffetteria perché non si sa se ti confermano. Dopo tre mesi, un nuovo contratto a progetto per altri tre mesi. La stanchezza inizia a farsi sentire. Grazie al cielo ho il pub e la caffetteria. Il tempo passa, le cose non cambiano: tra panini, lavori a progetto e cappuccini non posso altro che sognare di viaggiare: la mia passione».
Giovanni è un giovane di Castellammare di Stabia, città a sud di Napoli e la sua passione è la squadra di calcio del suo comune: la Juve Stabia. Lui si definisce uno «schiavo a partita Iva nello studio legale».«Ho trent’anni, una laurea in legge con tesi conseguita a pieni voti in diritto commerciale. Lavoro a Napoli da quattro anni come libero professionista. Ogni giorno prendo il treno affollato. A volte arriva alla stazione anche con quarantacinque minuti di ritardo. Dunque, di fatto siamo schiavi a partita Iva, dipendenti sottopagati e senza diritti. La carriera legale è in assoluto la peggiore tra quelle dei liberi professionisti: i praticanti avvocati sono utilizzati spesso dai loro “dominus” per fare lavoro di segreteria; ovvero rispondere al telefono, fare cancelleria, fotocopie, fatturazione, ricerche e, quando capita, pochissimi atti seriali, tra l’altro, tutti identici. Non c’è alcuna formazione, non sono retribuiti e, quando lo sono, vivono da eterni stagisti con stipendi da fame, maciullati dalle tasse e dalle casse di previdenza, come se uno con meno di diecimila euro lorde annue potesse pensare alla pensione. Questo ambiente è il vero Far West del mondo del lavoro. È assurdo leggere sempre le identiche cose su ordine degli avvocati e la sua riforma. Quando i governi che si succedono non fanno altro che tutelare questa casta che vive sulle spalle delle generazioni più giovani in modo indegno e vergognoso. A trent’anni è davvero umiliante; c’era davvero bisogno di lauree e master, per una vita senza tutele, senza guadagni e piena di sacrifici? Ai ragazzi dico di non fare come me e non seguire questa strada».
Salvatore, di Afragola, comune a nord di Napoli, architetto saltuario a tempo pieno per cinquecento euro al mese. Ha l’hobby della fotografia e frequenta spesso le sale cinematografiche. Fidanzato da cinque anni ma non pensa ancora al matrimonio. «Invece, vorrei segnalarvi il lavoro dei giovani laureati in Architettura, che tra i liberi professionisti, sono messi peggio e, non solo perché c’è la crisi. Il precariato è diventato una possibilità sfruttata oltre ogni limite possibile e immaginabile: ormai si lavora minimo nove ore con orari fissi di entrata e uscita. I titolari degli studi – più o meno vecchi architetti e ingegneri – ti pagano con la ritenuta d’acconto o ti chiedono di aprirti una partita Iva come se collaborassi saltuariamente. Magari ti chiedono pure di venire col portatile da casa. Se fai straordinari, non ti pagano. Spesso ti trattano male perché sanno di poter fare a meno di te: se lanciano un sasso attraverso l’annuncio di un giornale, beccano cinquanta disperati come e più di te. Ma senza di te non potrebbero stare: non sanno tenere un mouse in mano – sebbene disprezzino il computer –. Vogliono che tu lo sappia usare perfettamente, perché hanno fretta –; spesso non riescono a seguire tutti i progetti e lasciano questi schiavi ad occuparsi di un po’ di tutto. In generale ti pagano cinquecento euro al mese. Poche volte di più. Molte volte di meno».
Alessandro ha quarantadue anni e fa il camionista. Abita nel famoso quartiere di “Gomorra”: Scampia. Ha una grande passione per la lettura. Quando si ferma sugli autogrill legge sempre. È precario in un mondo senza regole. Sposato ed ha tre figli. «Il mio è un precariato anomalo. Faccio l’autista di tir, comunemente camionista. Per la maggior parte dell’opinione pubblica quello prepotente. O riproposto come criminale al telegiornale o in trasmissioni televisive dopo alcune nostre manifestazioni. Dietro ci sono anche persone come me, che lo fanno con passione, che hanno studiato. E negli anni si è ritrovato a fare l’autista, il contabile, il magazziniere, il facchino. In questo settore il contratto in Italia non lo rispetta quasi nessuno, si scatena la fantasia con pagamenti a viaggio o a chilometro. Quando ti pagano. Può capitare che i padroncini non ti danno un euro o ritardano. Cosa antipatica perché mentre lavori non sei spesato. Ci rimetti. E se ti lamenti o vuoi viaggiare in regola, il tuo contratto, anche a tempo indeterminato, non vale niente. L’ultima volta mi hanno licenziato per “incompatibilità ambientale”. Fantasiosi. Il nostro è ora un settore dove la regola è che non c’è regola: finte filiali all’Est Europa, autisti dell’Est che fanno il tratto nazionale o locale e, ultimo genio italico: gli autisti italiani che accettano di farsi fare il contratto in Romania o Bulgaria. L’azienda paga meno tasse, lo stato incassa meno ma tu lavori in un’azienda italiana, con mezzi italiani, merce e tratte italiane. Potenza dell’Europa. E quindi si percorrono, paradossalmente, strade piene di ricatti. Paghiamo la disoccupazione a casa a migliaia di autisti e paghiamo altri colleghi per fare lo stesso lavoro. Fantastico».
Francesca, pubblicista a sei euro ad articolo. «Ho scelto di fare la babysitter».Ha trentadue anni. Laurea in Lettere moderne e specializzazione in storia dell’arte. Iscritta all’Ordine dei giornalisti di Salerno come pubblicista da un anno. È single. L’amore per la storia dell’arte è immenso. «La passione per il giornalismo la scopro probabilmente troppo tardi, quando l’indipendenza economica urge e il tempo per fare gavetta è poco: stage, tirocinio, il lavoro nella redazione di un quotidiano online locale. Un lavoro “volontario” perché nel lavoro a progetto ci credo; è ambizioso e, la mia città ne ha bisogno. Nel frattempo faccio la babysitter per pagare affitto e bollette. Poi qualche sostituzione nella redazione regionale di un quotidiano nazionale. Ma in tempi di difficoltà economica anche i corrispondenti sembrano smettere di andare in ferie e finalmente l’occasione sembra arrivare: potrò continuare a scrivere per “il mio” giornale online e collaborare con un’altra testata, pagata. Un mese di prova – gratis e neppure il rimborso spese –; poi finalmente il caposervizio sentenzia: “Mando la richiesta per il tuo contratto di collaborazione”. Segue la doccia fredda: il compenso è di sei euro lordi ad articolo. Ma c’è un altro grosso problema. Spesso i pezzi mi vengono richiesti anche alle diciassette. Quindi, come posso continuare a fare la babysitter e pagare le spese? Fatti due conti non mi resta che rinunciare. Il rischio è di rimetterci fra telefonate e benzina per gli spostamenti e, davvero non me lo posso permettere.
I giovani del Mezzogiorno sono stanchi di un futuro incerto. Tuttavia, il presente è asfissiante e molti hanno ripreso i viaggi della speranza come i loro nonni e genitori. In Germania, Belgio, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti e Australia per trovare un lavoro stabile. Per riuscire a comprare una casa. Un’automobile. Farsi una famiglia e avere dei figli. La povertà dilaga.