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Usb: «Ecco perché scioperiamo (quasi) soli»

Domani lo sciopero generale proclamato da Usb. Ma perché non far convergere sciopero generale e sciopero sociale? Parla Fabrizio Tomaselli, dell’Esecutivo Usb

di Checchino Antonini

L'editoriale disegnato da Apicella
L’editoriale disegnato da Apicella

 

«Ma perché scioperate da soli?». A poche ore allo sciopero generale proclamato da Usb con Orsa e Unicobas, chiediamo a Fabrizio Tomaselli, dell’Esecutivo confederale dell’Usb, se non gli sembra un errore che si sia frammentata quell’idea di unificazione delle lotte che sembrava viaggiare in alcuni luoghi (sindacali e di movimento) prima di quest’autunno.

Il 10 ottobre sono scese in piazza le scuole, il 16 la logistica, il 24 loro, giusto alla vigilia del (non)sciopero della Cgil del 25, poi, il 14 novembre lo sciopero sociale che vorrebbe essere un tentativo di convergenza tra lavoro e non lavoro, “garantiti” e no, vecchie e nuove figure. Nessuna di queste mobilitazioni sembra in grado di impostare quella “spallata” in grado di invertire la tendenza o, almeno, limitare i danni dell’attacco in corso. Allora, è corretto domandarsi se non sia un passo indietro rispetto all’esigenza di collegare le resistenze sociali, che pure ci sono, ma che hanno bisogno di sponde organizzative e politiche?

«L’esigenza di costruire lo sciopero generale risale all’estate – esordisce Tomaselli – quando già era in piedi il percorso dello Strike-meeting (una due giorni nazionale che s’è svolta alla fine di settembre, ndr). I movimenti sociali più i sindacati conflittuali che hanno aperto un ambito di discussione per uno sciopero sociale generalizzato agibile da cittadini e lavoratori. Ma a un certo punto, per noi, è venuto il momento che una risposta sindacale era divenutato stringente».

Eppure le giornate del 18-19 ottobre dello scorso anno avevano prefigurato quella convergenza: sciopero, corteo sindacale, assemblea in piazza, accampata, corteo dei movimenti il giorno appresso e un’altra accampata a oltranza. Sembrava un inizio, invece era uno sprazzo.

«Quel percorso non ha avuto esito perché c’è chi ha scelto un’opzione politica, ha creduto di essere autosufficiente. Lo strike-meeting, invece, aveva trovato una condivisione totale. Abbiamo contattato le sigle sindacali che non c’erano e c’era stata una convergenza anche sualla data».

Poi che cosa è successo?

«Che l’agenda non era politica non era più la stessa, che il governo aveva impresso un’accelerazione al jobs act. Allora abbiamo proposto di anticipare tutto al 10 ottobre, per scendere in piazza con le scuole. Ci sembrava logico ma ques’accelerazione nostra non è stata recepita dagli altri soggetti, è parsa prematura e s’è spaccato il fronte. Il fatto è che la risposta sindacale non può arrivare a cose fatte e con questo penso alla Cgil che evoca lo sciopero ma poi non lo fa».

Tutto finito dunque?

«Dopo il 24 valuteremo cosa fare il 14». 4616_1060755922475_2434007_n

Ma non temete che il (non)sciopero della Cgil, che pure sarà molto partecipato anche da settori per voi interessanti, che proveranno a incalzare sull’urgenza di uno sciopero generale, possa oscurarvi completamente?

«La cappa mediatica non è mai stata così pesante. E’ difficile lavorare così ma è la storia di chi fa conflitto. La riflessione è di due tipi, la prima di politica sindacale, la seconda di impostazione. La politica sindacale dovrebbe essere legata a quello che accade. L’impostazione, rispetto ad altri sindacati conflittuali, è che quel modello di sindacato di base sia superato, come abbiamo spiegato nel nostro recente congresso. C’è bisogno di un’alternativa sindacale di classe e di massa presente ogni giorno nei posti di lavoro perché Cgil, Cisl e Uil organizzativamente ci sono ma come sindacato non ci sono più».

Ma anche il concetto stesso di posto di lavoro è stato soggetto a torsioni e mutazioni, per questo la suggestione della convergenza tra chi è sindacalizzabile e chi non lo è nelle forme classiche, ci sembrava così feconda.

«Noi parliamo di sindacalismo metropolitano e di sciopero sociale, e siamo stati tra i primi a farlo riflettendo sui limiti della rappresentanza del lavoro in senso “classico”. La destrutturazione del contratto ha diviso i lavoratori. C’è bisogno di confederalità sociale, una forma della rappresentanza del lavoro e del non lavoro».

Ma non temi che in fondo a questa fase si possa parlare di tutta questa vicenda come dell’ennesima occasione perduta, della tendenza quasi innata a dividersi?

«Non è solo la visibilità di un giorno a cambiare le cose. Serve organizzazione dietro le spalle delle scadenze di lotta, c’è bisogno di un sindacato generale, l’“arcipelago cobas” ha fatto il suo tempo».

Eppure alcune esperienze di lavoro intersindacale, di collegamento dal basso, di autoconvocazione, sembrano funzionare anche nell’ipotesi di un nuovo sindacato di classe adeguato alla fase, sembra una delle forme non solo di unificazione delle resistenze ma anche un antidoto all’autoreferenzialità, al settarismo.

«Ci sono situazioni dove quel lavoro intersindacale è opportuno e positivo e altre in cui somiglia all’inconcludenza degli intergruppi tra le organizzazioni politiche».

E che ne è del tavolo del sindacalismo conflittuale a cui partecipa anche l’opposizione della Cgil? «In qualche modo il lavoro continua, ad esempio nel Forum Diritti-Lavoro ma l’accordo del 10 gennaio, che limita al massimo la nostra agibilità nei luoghi di lavoro, ha complicato non solo le relazioni tra noi e la Camusso, ma anche col resto della Cgil».

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