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La difficile vita italiana delle “mamme di giorno”

Aumentano i soldi pubblici stanziati per il servizio tagesmutter, ma chi tutela i diritti delle lavoratrici? Cronaca di uno sfruttamento italiano tutto al femminile.

di Alessandra Contigiani

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Due milioni e novecentocinquantaquattromila euro: questa la cifra stanziata dalla Provincia di Bolzano nel 2014 per le tagesmutter, confluita nelle mani delle cinque cooperative che le gestiscono. La Regione Veneto, dal canto suo, ha appena deliberato l’erogazione di un contributo di trecentosessantaquattromila euro (dal Fondo per le politiche della famiglia, approvato in sede di Conferenza Stato-Regioni lo scorso agosto) per aumentare l’offerta dei nidi in famiglia, dove operano appunto le tagesmutter. Ma l’incremento delle risorse pubbliche destinato a questo servizio non necessariamente si traduce in un miglioramento delle condizioni attraverso cui esso viene prestato. Condizioni, purtroppo, attualmente precarie e, talvolta, ai limiti dello sfruttamento.

Per chi non lo sapesse già, la tagesmutter (che in tedesco significa “mamma di giorno”) è una donna che accudisce presso il proprio domicilio o altra abitazione civile un piccolo gruppo di bambini, soprattutto in età prescolare. Questa figura, debitamente formata, è molto diffusa nel nord e centro Europa e, dagli anni Novanta, è presente anche in Italia. Differentemente da altre realtà europee, in cui le tagesmutter esistono da decenni e sono generalmente inquadrate come dipendenti pubbliche o private, con modalità stabilite per legge attraverso la contrattazione collettiva, in Italia – dove non esiste una normativa nazionale di riferimento – operano sulla base di regolamenti regionali. Una molteplicità di termini, a seconda del contesto locale, definiscono questa professione: oltre a “tagesmutter” troviamo “mamma di giorno”, “mamma accogliente”, “assistente domiciliare all’infanzia”, “collaboratrice educativa”, “educatrice domiciliare”, “educatrice familiare”, “operatore dei servizi educativi integrativi all’infanzia” e così via.

La difformità terminologica e, soprattutto, di regole generano confusione riguardo questo mestiere e rendono molto difficile la creazione, su base nazionale, di un’associazione di categoria capace di partecipare ad una necessaria ed adeguata contrattazione sindacale. Per tutte quelle tagesmutter che non esercitano la propria professione in forma autonoma o che non si sono costituite come ditta artigiana, infatti, non esiste un Ccnl: l’unico (e discutibile) accordo esistente, siglato dall’associazione Domus insieme a Cisl e Uil, è scaduto. Il Ccnl Portieri in vigore inquadra puramente la figura della “tagesmutter condominiale”, diffusa in minima parte; mentre le tagesmutter che lavorano in cooperativa possono fanno riferimento al generico Ccnl delle cooperative sociali. Di fatto, le tagesmutter italiane non hanno un ente che le rappresenti a livello nazionale, né specifici strumenti di garanzia sindacale e, quindi, possono divenire facile preda di realtà intenzionate, più che a valorizzarle come risorsa educativa, a lucrare sul loro operato.

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Sempre più frequentemente vediamo tagesmutter assunte da cooperative o associazioni con contratti a progetto, laddove, invece, si ravviserebbero tutti gli elementi propri del lavoro a tempo indeterminato. Una condizione, segnalata anche dalla Cgil (tra l’altro rifiutatasi di siglare il Ccnl Domus), che purtroppo accomuna queste lavoratrici a migliaia di altre donne, tra cui le educatrici degli asili nido. Associazioni e cooperative che offrono alle famiglie un servizio flessibile, con contratti anche di poche ore, tendono a riversare i costi di questa flessibilità sulle lavoratrici, generando precariato. Spesso le tagesmutter sono donne precedentemente uscite dal mercato del lavoro, quasi sempre dopo aver dato alla luce un bambino, in una nazione in cui le tutele per l’impiego femminile e per la maternità sono risibili paragonate a quelle delle altre principali potenze europee. Alcune di queste donne, purtroppo, cedono a compromessi ai limiti del lecito per il timore di perdere il posto o, semplicemente, perché non posseggono strumenti adeguati per far valere i propri.

Difformità di regole, assenza di contrattazione collettiva e di garanzie: chi difende i diritti di queste donne? Se è vero che l’aumento dei fondi stanziati sottolinea la necessità di ampliare l’offerta di un servizio percepito come efficace ed indispensabile, c’è da chiedersi quando il legislatore deciderà di muoversi affinché queste persone vengano tutelate nello svolgimento della propria professione.

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