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Giovani, calcio, repressione e disagio

Alegre ripubblica “Il derby del bambino morto” nella nuova collana diretta da Wu Ming di oggetti narrativi non identificati

di Carlo Scognamiglio

derbybambinomorto

La casa editrice Alegre ha ripubblicato il singolare libro di Valerio Marchi del 2005 (precedentemente edito da DeriveApprodi), Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio, corredando il testo con una premessa di Wu Ming 5 e un aggiornamento di Claudio Dionesalvi.

Valerio Marchi, scomparso ormai da otto anni, è stato senz’altro un intellettuale anomalo. Di indubbia attitudine all’analisi delle trasformazioni osservabili nel disagio giovanile e nei suoi meccanismi di espressione, Marchi non nasconde un’internità ai processi osservati, che ne orienta lo sguardo in modo inequivocabile; e se per certi versi tende a offuscarne la completezza, per altri la vivacizza con sensibili elementi di partecipazione. Non sono un tifoso, e pur non essendo mosso da particolari furori, ho letto il suo libro in meno di ventiquattr’ore, con la sensazione di apprendere molto, anche trascinato dalla curiosità di comprendere un punto di vista che per essere assimilato prevede un’esperienza di vita che non ci si può inventare. Purtroppo, devo dire, non credo di averlo compreso a pieno. Mi spiego subito. Ma prima, come occorre fare quando si recensisce un libro, un breve resoconto dei contenuti.

Nei primi capitoli del libro Marchi avvia una ricostruzione contestualizzata, anche storicamente, di quanto accadde allo stadio Olimpico il 21 marzo del 2004, quando in occasione del derby romano si andarono a determinare momenti di forte conflittualità tra le due tifoserie (in piccola parte), ma soprattutto tra tifoserie e forze dell’ordine. A un certo momento si diffusero voci incontrollate sulla morte di un bambino (o ragazzo) a seguito dell’azione repressiva della polizia. Le voci erano contraddittorie, confuse, e le smentite al microfono da parte della questura non furono sufficienti a tranquillizzare il pubblico sugli spalti, che chiedeva l’interruzione della gara. Alcuni tifosi scesero in campo chiedendo ai giocatori di rinunziare alla partita, come di fatto accadde, in contrasto con le autorità di pubblica sicurezza, che avrebbero insistito per la continuazione. Le enormi difficoltà nelle operazioni di deflusso, secondo l’autore artatamente generate da una gestione sbagliata o addirittura intenzionalmente sperimentali per nuove tecniche di controllo delle folle, amplificarono lo scontro che, come molti di noi ricorderanno, si protrasse in modo particolarmente cruento fuori dello stadio. Non intendo adesso ripescare tutta la casistica indagata da Marchi attraverso una contrapposizione non sempre convincente tra quotidiani nazionali e testimonianze dirette ricavate da siti ufficiali delle tifoserie. E non mi esprimo sui fatti, che conosco poco e che ho intravisto solo in televisione ormai dieci anni fa. La tesi dell’autore non è mediata da segni di perplessità. Il suo schema di lettura è chiaro: la polizia avrebbe generato uno stato di tensione a seguito del quale si sarebbe resa credibile la storia del bambino morto; e di fronte allo sdegno morale di uno stadio invocante l’interruzione dei giochi si sarebbe aperto un terribile confronto fisico tra spettatori e celerini. Questi ultimi, secondo l’interpretazione di Marchi, sarebbero stati orientati al conflitto già dai primi assembramenti del pre-partita, preparati a ricorrere a sistemi di sfollamento chimici estremamente pericolosi. Le ragioni di questo processo sono poi indagate con perizia nella parte centrale e finale del libro.

Tuttavia i capitoli più significativi e più interessanti del volume non sono quelli dedicati alla ricostruzione, che è un mezzo per pervenire al “dunque”, bensì quelli concentrati sull’indagine sociologica. Punto primo: perché le voci sul bambino morto si sono diffuse così rapidamente e perché hanno creato tanto scompiglio? Marchi ragiona sulla differenza tra informazione controllata e voci incontrollate. Il passaggio è suggestivo. L’autorità costituita ama gestire l’informazione, e lo fa attraverso i mass media e i comunicati ufficiali. Teme invece i rumors, perché essendo comunicazioni anarchiche per definizione, possono creare reazioni imprevedibili e fuori dagli schemi. L’esempio del bambino morto è un caso di scuola. Circola una voce, anzi più di una, e succede il finimondo. Le folle si agitano, le autorità alimentano quell’agitazione mediante una politica repressiva che pare sopperire all’impossibilità di controllare quelle voci attraverso manganelli e fumogeni.

Poniamo anche che la ricostruzione di Marchi sia fedele alla realtà, ed escludiamo per un momento che la diceria sul bambino morto non sia frutto dell’ideazione di una parte delle tifoserie per intorbidire il clima. Mi pare importante precisare un altro aspetto della questione: il fatto che le voci siano incontrollate non per questo le rende espressioni di un sentire comune libero e svincolato dai canali ufficiali e capace di rompere schemi liberando energie positive, come invece sembra suggerire l’autore. Le voci possono essere anche introdotte surrettiziamente in una massa. Lo so, è la tesi del “complotto”, eppure bisogna ammetterne la possibilità. Ma anche escludendo la tesi complottista, le voci incontrollate possono esprimere anche delle menzogne, e rischiano di diventare molto pericolose. Molti ricorderanno che pochi anni fa si diffuse a Napoli la diceria di una ragazza di etnia rom che avrebbe tentato di rapire un bambino in un appartamento. Dopo poco la notizia si rivelò infondata, ma ormai il pogrom era già iniziato, e un campo nomadi ardeva tra le fiamme. Non c’è poi bisogno di scomodare Freud e Le Bon, per sapere quanta irrazionalità ci può essere in una dinamica di massa, e quanto l’assenza di un soggetto politico strutturato nella gestione di piazza possa determinare gli esiti più imprevedibili. Quella energia liberata non è necessariamente un elemento di genuina etica ribellistica. Ecco perché nei vecchi partiti comunisti e nei movimenti sindacali si era sempre molto attenti alla gestione dei servizi d’ordine e al controllo delle teste calde.

Ma questo è un altro discorso. Più interessante il ragionamento di Marchi quando sollecita il lettore a domandarsi come mai la gente presente allo stadio si fosse persuasa subito che la versione controversa della notizia sul bambino morto fosse più vera della smentita della polizia. Che dire? Evidentemente nel nostro Paese non c’è fiducia nell’autorità. In questo senso, e soprattutto in questo secondo me, in quell’episodio c’è un dato politico da tenere presente. Marchi è acuto quando distingue in ciò l’atteggiamento del tifoso italiano e di quello inglese nei confronti delle forze di polizia. In Italia è sedimentata una sfiducia nello Stato e di chi lo difende. Le ragioni sono evidenti. Non c’è bisogno di scontrarsi con la celere per comprenderlo. Dalle politiche fiscali a quelle sul lavoro, dagli scandali sulla “casta” alle palesi violazioni dei principi di equità e giustizia, senza citare i molti misteri che costellano la martoriata storia delle nostre istituzioni, è piuttosto comprensibile che l’istinto del cittadino sia quello di prestare poca fede alla versione della polizia, in una dinamica conflittuale come quella che si era creata all’Olimpico. Che inoltre in Italia esista da parecchi decenni un problema politico nella relazione tra gli interventi di ordine pubblico e la gestione del dissenso mi pare un dato parecchie volte evidenziato dai fatti.

Ma andiamo avanti. In un altro capitolo Marchi si impegna a indagare quello che lui chiama “il sapere della polizia”. Il riferimento è non solo alle tecniche di gestione della piazza, ma anche di rappresentazione dei manifestanti e del conflitto maggiormente diffuse nell’immaginario degli appartenenti alle forze dell’ordine. E qui la ricostruzione storica e testimoniale è veramente interessante e ricca di informazioni. Questo capitolo vale tutto il libro.

Però poi c’è un dato che scuote il lettore. Marchi spiega come mai col tempo nella percezione della polizia, ma anche della cittadinanza, si tenda a distinguere una violenza o intemperanza “comprensibile”, cioè giustificabile in base a un fine, da un’altra violenza, più irrazionale – come quella delle curve – definita “teppistica”. Snocciolando la storia della sottocultura ultras, Marchi prova a replicare respingendo quella differenza, e riconducendo tutto nell’orizzonte di un disagio giovanile che non è capito o che è respinto nell’area dell’irrazionalità con lo scopo di farne un capro espiatorio. Ma non mi pare una risposta completa. Perché quella differenza esiste, e non si può occultare. È vero che nei movimenti di protesta possono convogliare elementi di disagio non strettamente pertinenti con la singola vertenza, ed è anche vero che nelle turbolenze degli ultras possono confondersi posizioni antagoniste di natura politica. Però le differenze vanno capite, non negate. La lotta per il posto di lavoro, per la difesa del proprio territorio, per una politica pacifista, non sono esattamente la stessa cosa degli scontri allo stadio, e non possiamo con leggerezza trascinare tutto nella questione del disagio. Lo stesso G8 di Genova, che nello studio dei metodi della polizia viene assimilato da Marchi ai fatti dell’Olimpico, è un fatto storico molto diverso.

Ed è proprio nella definizione del fenomeno delle tifoserie, per un profano come me, che Marchi risulta meno convincente. Lo studio dei comportamenti devianti e delle sottoculture è uno dei campi maggiormente battuti dalla ricerca sociologica. Da Durkheim a Merton, fino a Becker, i grandi classici delle scienze sociali hanno rivoltato il fenomeno in lungo e in largo, ma del paradigma funzionalista – tanto per dirne una – non c’è traccia nell’indagine di Marchi, che pure si dimostra competente nell’analisi dei processi sociali. “Disagio” è una parola troppo complessa per usarla senza le opportune discriminazioni concettuali, e non ha a che fare necessariamente con gli strati più bassi della popolazione. Non a caso, è l’autore stesso a precisare che i tifosi non costituiscono il Lumpenproletariat di marxiana memoria, ma che si tratta di un fenomeno interclassista. Il tifo raccoglie anche il disagio “borghese” dei figli di papà.

Ciononostante, l’autore sembra suggerire la necessità, soprattutto per una sinistra matura, di cogliere quella pulsione di disagio e tradurla in politica (come se fosse un fenomeno omogeneo). Non lo dice esplicitamente, ma lo si intuisce dalle ultime battute del libro.

Siccome questo tema torna spesso nel dibattito della sinistra politica, è bene fornire una precisazione: è del tutto normale che in un sistema sociale ci siano elementi di disagio, è costitutivo al sistema stesso, dipende dalla frustrazione connessa a ogni convivenza e dal fatto di dover sottostare a regole sociali. Ci sono situazioni in cui si manifestano gradi più alti di insofferenza, ed esistono società dove i livelli di disagio (e dunque di conflitto) sono più contenuti. La politica è anche la gestione del disagio, ma non la sua cancellazione. Anche in uno Stato socialista, tanto per dirne una, avremmo manifestazioni di disagio giovanile contrapposte a strutture d’ordine (le si chiami come si vuole), deputate al controllo. Questo è lo schema di qualsiasi consesso sociale. Tuttavia, nell’area del disagio ci sono spinte che possono diventare emancipatrici – e quindi da valorizzare – e altre che possono essere retrive. L’arditismo di cento anni fa fu ben sfruttato dai proprietari terrieri per schiacciare l’avanzata delle sinistre e aprire le strade al fascismo. Anche quella era una manifestazione di disagio, ma era una reazione all’emancipazione sociale. Era il disagio conservatore.

Quel che resta da dimostrare è che la conflittualità della curva sia una potenza propulsiva orientata al bene comune, politicamente decisa a riappropriarsi del calcio come sport genuino e non commerciale, secondo quanto sembra asserire Marchi alla fine del libro, oppure no. Personalmente non lo so, e voglio dare per buona la sua conclusione, quando scrive che “la strada è probabilmente quella di un nuovo contatto sociale, non più basato sui lacrimogeni, sui manganelli e le cariche, sulla caccia al complotto, sulla censura, sulla criminalizzazione dei movimenti e delle culture antagoniste, ma al contrario su una profonda e generalizzata presa di coscienza della peculiarità culturale del calcio e di come non tutto si possa, sempre e comunque, trasformare in merce” (p. 195).

Un ultimo elemento però mi lascia perplesso del suo ragionamento, e riguarda quella sorta di superiorità etica di cui le curve si sarebbero fatte portatrici nel voler fermare la partita dopo la notizia relativa al “bambino morto”. Che si possa presumere una maggiore sensibilità morale rispetto ai rappresentanti delle nostre istituzioni e dell’industria dello spettacolo posso arrivare a capirlo, anche se non ne vedo l’utilità, e non ho ragione di dubitare del profondo sentimento morale dell’autore del libro, il quale insiste sul fatto che di fronte alla morte non si deve giocare. Tuttavia, rimango perplesso sull’ascrivibilità di questa forza etica agli ultras in quanto gruppo sociale. Come Marchi stesso dettaglia, fa parte della cultura delle tifoserie la pratica della scazzottata, del corpo contundente. Non si tratta solo il tirare sassi ai lampioni. Gli scontri fisici con le tifoserie di altre squadre risalgono alla notte dei tempi, come egli ben documenta. Vi è indubbiamente in questa cultura una tolleranza – quando non un’esaltazione – della fisicità e dello scontro. Ora, non si può dire con tanta facilità che la scazzottata va bene, ma il fumogeno no. Questo perché anche il cazzotto può uccidere, o ferire gravemente. Chiunque abbia visto una rissa lo sa bene, è sufficiente una brutta caduta. Non finisce sempre come nei film di Bud Spencer. Se vai allo scontro, metti in conto che ci può scappare il morto. Ecco perché così spesso nei cortei dei lavoratori vengono allontanati i provocatori, perché non solo danneggiano la lotta, ma perché rischiano sempre che ci vada di mezzo l’indifeso. E allora, se comunque la pratica della violenza rientra nella grammatica di un gruppo, forse quell’orgoglio etico andrebbe messo in discussione. Almeno in parte.

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