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Come Tolstoj fuggì dal paradiso

Il libro del giornalista russo Pavel Basinskij: Fuga dal paradiso. La vita di Lev Tolstoj

di Carlo Scognamiglio

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Il prezioso libro del giornalista russo Pavel Basinskij (Fuga dal paradiso. La vita di Lev Tolstoj, Castelvecchi, 2014) racconta una storia già molte volte disarticolata e interpretata, nei suoi frammenti come nella sua globalità. Una storia che non riusciamo a smettere di seguire con interesse e con umana curiosità, non morbosa né parassitaria. I lettori di tutto il mondo si ostinano a ripercorrere gli ultimi giorni della vita di Tolstoj per ragioni profonde, e non soltanto per leggervi i retroscena di una vicenda religiosa o familiare. La fuga di Tolstoj, per come si è concretizzata alla soglia delle grandi tragedie del Novecento, parla un linguaggio universale, che Basinskij non pretende mai di gestire, e che però non riesce a fare a meno di riprodurre.

Dopo aver donato alla storia della cultura mondiale alcuni immortali capolavori letterari, come Guerra e pace o Anna Karenina, la vita spirituale di Tolstoj, tormentata fin dagli anni giovanili, inclinò verso una progressiva maturazione politico-religiosa talmente radicale da indurlo a contrapporsi a ogni forma di potere, politico o chiesastico, per tentare un abbraccio esistenziale con la spiritualità del popolo, con il Dio degli ultimi, e per percorrere la strada della buona compenetrazione, da lui intravista, tra natura e mondo contadino. Da giovane, egli custodiva in un ciondolo appeso al collo il ritratto di uno degli autori interiormente più travagliati della nostra tradizione: Jean-Jacques Rousseau. Il suo è un analogo tormento, frutto di una simile vocazione all’autenticità.

La piega spiritualistica dell’ultimo Tolstoj, capace di dar vita a una nuova forma di religiosità, che pure ebbe in Russia una certa diffusione, e che risuonò potentemente all’estero fino a suggerire al Mahatma Gandhi l’idea delle non-violenza come pratica di resistenza all’oppressione, si lasciava alle spalle una giovinezza dissoluta. La struttura narrativa del poderoso libro di Basinksij è in ciò molto efficace. Il racconto si costruisce intrecciando due piani evocativi sapientemente alternati. La descrizione degli ultimissimi giorni del grande scrittore, fuggito dalla sua tenuta di Jasnaja Poljana nell’ottobre del 1910, all’età di ottantadueanni, è interrotta sistematicamente dalla ricostruzione dettagliata della sua biografia più intima, legata alla fortissima relazione affettiva con la moglie, Sof’ja Andreevna Bers.

Questo libro scava nelle pieghe del carattere di Tolstoj, senza fare sconti alle contraddizioni delle sue condotte, alle sue grandezze ma anche alle sue meschine paure. Con lo stesso equilibrio, la figura nevrastenica della moglie viene in parte risarcita delle tante ingenerose condanne moralistiche succedutesi negli anni, soprattutto a opera dei “tolstojani” più intransigenti, e in ciò, appunto, meno attraversati dal significato profondo dell’opera del geniale scrittore.

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La storia di questo lungo matrimonio è una storia profonda, importante ed emblematica, proprio in virtù delle sue semplici articolazioni. Tolstoj andava con gli anni a proiettarsi sempre più verso una dimensione spirituale alta, troppo elevata per le preoccupazioni di tutela economica della famiglia che tormentavano la sua compagna. Tolstoj aveva sposato Sof’ja, ma poi aveva pure sposato una “causa” difficile, i cui orizzonti oltrepassavano i confini dei propri possedimenti, che intendeva cedere a coloro che vi lavoravano, i contadini. Gli stessi diritti d’autore delle proprie opere dovevano diventare, secondo la sua volontà, di proprietà comune, cioè di “tutti”. Si trattava potenzialmente di una ricchezza immensa, che il grande narratore sottraeva ai propri eredi per affermare fino in fondo le proprie convinzioni. Ma la famiglia non comprese né condivise il suo ideale (fatta eccezione per alcune delle figlie), né forse ci si poteva attendere una risposta diversa dagli eredi diretti, e in particolar modo da colei che li aveva messi al mondo, e che intendeva tutelare, con loro, anche la dignità dei quarantotto anni trascorsi costantemente al fianco di un marito dalla personalità incontenibile, curandosi non solo lui e della trascrizione dei suoi scritti, ma pure attraversando la fatica di tredici gravidanze.

Le gelosie, le incomprensioni, le scenate isteriche ben dettagliate da Basinskij agevolano il lettore in quel giusto processo di demitizzazione. La dialettica tra Tolstoj e la sua povera moglie non rappresenta soltanto la storia di un conflitto coniugale, o di una insanabile frattura tra due compagni di vita che non si comprendevano più. Essa possiede potenza universale perché racconta del nostro conflitto interiore.

È viva in ciascuno, infatti, l’estenuante tendenza a sollevarsi dalle necessità dell’esistere ordinario. Le spese e le incombenze domestiche, la decadenza corporea con la malattia, la quotidiana fatica delle relazioni formali e, in certi momenti, anche la necessità della cura familiare: tutto concorre, come in un piano preordinato, a intrecciare la fune che ci trattiene dalla concentrazione su noi stessi, sul nostro rapporto col mondo e la vita che lo popola. La necessità della meditazione sulle nostre stesse azioni e sul fondamento etico delle scelte, pare infatti ostacolata dal costante richiamo alle presunte esigenze della “vita”. Si tratta di una dialettica ineludibile, però. Come nel mito della biga alata di Platone, così nel nostro io devono inesorabilmente consumarsi a vicenda l’anima di Tolstoj e quella di Sof’ja Andreevna, che tirano in direzioni opposte, ma che non possono non amarsi, nel loro respingersi.

La “fuga dal paradiso” è anche una fuga da sé stessi. È il tentativo di risolvere, almeno nel proprio animo, quel conflitto esistenziale, attraverso uno strappo estrinseco e definitivo, estremo come può essere solo un gesto compiuto con l’approssimarsi della morte. Inutile domandarsi se quel vecchio filosofo sia scappato in piena notte dalla vita domestica, dalla moglie, dalla notorietà o dai suoi stessi seguaci. Egli è fuggito da quella parte di sé che lo teneva incatenato alla vita ordinaria e alle sue relazioni necessarie.

Ma sotto questo profilo, è la storia di un fallimento.

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