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Come pensiamo, soffriamo e amiamo. Secondo Swaab

“Noi siamo il nostro cervello“, l’ultimo libro di Dick Swaab: tutto quello che sappiamo del nostro cervello è provvisiorio

di Carlo Scognamiglio

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Il professor Dick Swaab è considerato in Europa un importante esperto nelle neuropatologie, e ha dedicato la propria vita alla ricerca sul cervello. Com’è noto, il dibattito nelle scienze psicologiche è spesso attraversato da momenti di tensione tra coloro che intendono attribuire ai processi neuronali la dimensione attivante di ogni comportamento umano, ed altri, “ambientalisti” o “mentalisti”, che invece preferiscono collocare il fulcro delle ipotesi eziologiche nell’ambito del condizionamento sociale o della costruzione di una personalità che non si risolve nelle reti neuronali. Il punto è che i processi biologici e comportamenti osservabili negli esseri viventi, compreso l’uomo, procedono sempre in simultanea, e l’individuazione dell’origine del movimento, per quanto importante sul piano clinico, rischia di configurarsi come un orizzonte inarrivabile.

Il recente libro pubblicato da Dick Swaab (Noi siamo il nostro cervello. Come pensiamo, soffriamo e amiamo, reso disponibile in lingua italiana dall’editore Castelvecchi nel febbraio di quest’anno, grazie a una bella traduzione di David Santoro) si colloca prudentemente in questa eterna controversia. L’autore evidentemente privilegia una soluzione riduzionistica, e tuttavia lascia spazio, di tanto in tanto, ad aperture dialettiche nei confronti della posizione opposta, ad esempio nella trattazione dei comportamenti aggressivi e delle loro cause e concause.

Ma non è un libro dedicato all’epistemologia. Si tratta invece di un’ampia descrizione, accessibile al lettore non specializzato in materia, delle funzioni del cervello, delle sue patologie, e della sua complessità. In tal senso, Swaab ci tiene molto a fare chiarezza su numerose questioni spesso trattate in modo spiccio e senza alcuna evidenza scientifica, a partire dalle leggende metropolitane che ci vogliono “sfruttatori” di una percentuale minima delle nostre facoltà cerebrali, fino a questioni più delicate, come l’interpretazione dell’omosessualità, della pedofilia o dell’eutanasia. Swaab è stato fatto oggetto in passato di violenti attacchi da parte delle associazioni per i diritti civili, in forza della propria lettura biologistica dell’orientamento sessuale, a suo parere determinantesi in una fase intrauterina. Senza approfondire la questione, è corretto dire tuttavia che su questo terreno l’autore tende a essere meno disponibile che altrove ad aperture verso posizioni inclini a valorizzare il condizionamento ambientale (il che, per chi conosce la storia antica e recente, parrebbe innegabile, senza con ciò pretendere di confutare eventuali processi di costituzione organica).

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Di grande interesse il capitolo dedicato alla mente adolescenziale e alla peculiare irrefrenabilità di alcuni comportamenti dei giovani, che paiono inadatti al controllo dei propri bisogni. Swaab ricorda come vada inteso quale elemento di riflessione fondamentale nel dibattito sull’adolescenza la tardiva formazione della corteccia prefontale (CPF), responsabile dell’autocontrollo: “gli adolescenti prendono in considerazione solo le conseguenze a brevissimo termine e quando fanno scelte pericolose sono insensibili alle punizioni. Ciò si deve alla corteccia prefrontale ancora immatura. Per tale ragione vi sono anche maggiori probabilità che gli adolescenti abusino di sostanze che causano dipendenza e che possono arrecare danni permanenti al loro cervello ancora non del tutto maturo” (p. 92). Il sostituto della corteccia sarebbero i genitori, che appaiono non a caso il termine di riferimento per il conflitto vissuto interiormente dagli adolescenti. Come si spiegano allora fenomeni come il prolungarsi di questa dimensione di irresponsabilità in società come la nostra? Al di là del dato socio-economico, Swaab propone la seguente lettura: “il problema è che gli adolescenti attuali hanno scoperto che i genitori non hanno il potere di imporre il proprio ruolo di sostituti della CPF” (p. 94). Ma il cruccio non è tanto dei genitori, quanto di chi dedica ai ragazzi tutta la propria vita: “per i genitori è rassicurante sapere che l’adolescenza un giorno finirà. Al contrario, per alcuni insegnanti l’idea che per ogni adolescente che impara a comportarsi e che inseriscono nella società ce n’è uno nuovo in arrivo deve essere insopportabile” (p. 96). Beh, non è proprio così, ma l’osservazione è interessante. In ogni caso, è nostro dovere richiamare l’importanza dei fattori sociali e storici nella definizione di ciò che noi intendiamo con il termine adolescenza, che non è sempre univoco in tutti luoghi e in tutti i tempi, come le ricerche etno-antropologiche hanno ampiamente dimostrato.

Il problema lo ritroviamo nella peraltro bellissima sezione del libro dedicata alle patologie neurologiche, da cui ho appreso veramente molto. Tuttavia alcuni passaggi richiederebbero ulteriori approfondimenti, poiché vi sono affermazioni troppo perentorie, come la definizione dell’anoressia quale “malattia dell’ipotalamo”, punto. Tuttavia è lo stesso Swaab a dichiarare dopo aver meglio sviscerato il problema, che “la patologia originaria su cui influiscono tutti questi fattori è ancora un mistero” (p. 139).

La questione dell’eutanasia, nei casi di demenza, è assai complicata, e non è questo il luogo per dirimerla né affrontarla. Basti però dire che la prospettiva dalla quale Swaab la osserva è quella che si fonda sull’assunto di discriminazione tra una “vita degna di essere vissuta” e il suo opposto. Non a caso, ci ricorda l’autore, che è olandese, come nel suo Paese lo stato vegetativo permanente non sia considerato “dignitoso” per un essere umano. E le argomentazioni addotte in certi passaggi, legati soprattutto a quello che in Italia chiamiamo “testamento biologico”, appaiono molto convincenti. Ma non bisogna farla facile. La discriminazione tra esistenza degna e indegna è a mio parere da respingere, e comunque non fondata scientificamente, trattandosi di una distinzione di carattere morale. In altre epoche della storia, com’è noto, questo genere di differenziazioni ha favorito nel mondo accademico e medico una certa accondiscendenza nei confronti delle politiche di sterminio, o quanto meno di esclusione sociale.

Estremamente gustose sono poi le pagine dedicate allo sport. È davvero curioso che un olandese aperto e tollerante come Swaab si scagli poi così violentemente contro la boxe, definita come “neuropornografia”, auspicandone il divieto definitivo. Senz’altro si tratta di uno sport pericoloso per chi lo pratica, che riduce spesso in condizioni drammatiche il sistema cerebrale degli atleti. Tuttavia sono molte le pratiche poco salutari che socialmente continuiamo ad accogliere e celebrare, e non per questo sono vietate dalla legge. Qui ci sarebbero almeno due discorsi da fare: il primo in merito alla libertà di ciascuno di logorare il proprio corpo come meglio crede, magari facendosi prendere a cazzotti da un avversario. In secondo luogo, non si può ridurre il pugilato a un annientamento animale dei due contendenti. Come tutte le competizioni sportive, nella boxe si possono intercettare elementi metaforici dell’esistenza. E non è una cosa da poco. Lo sport è così popolare non in forza del divertimento che ne scaturisce, ma delle storie che riesce a raccontare. Swaab sostiene che lo sport non fa affatto bene alla salute, ma che anzi chi pratica attività agonistiche rischia di danneggiare le proprie condizioni fisiche in misura percentualmente assai più elevata di altri. Sarebbe bene lasciarlo ai professionisti, e accontentarsi di vederlo in televisione. Questa sua digressione è evidentemente eccessiva nelle conclusioni, ma è scritta in modo brillante, garantendo una lettura partecipata e piacevole.

Nel complesso un libro interessante, utile e capace di sollecitare riflessioni a partire da informazioni esatte, ma mai definitive.

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