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Argentina, il derby fra i nipotini di Menem

Elezioni in Argentina. E’ stato un derby fra tre candidati di destra, al servizio di industriali e finanzieri, varianti diverse della destra peronista e con un passato al seguito di Menem

di Guillermo Almeyra*

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Era notoria l’impopolarità del governo di Cristina Fernández e del Frente para la Victoria [Fronte per la Vittoria] (FpV), ma nessuno – né politologi, né sondaggisti, né funzionari -aveva previsto la portata del disastro elettorale appena subito dalla squadra kirchnerista, in una tornata elettorale in cui la partecipazione ha superato il 79% e pochissime sono state le schede bianche.

Daniel Scioli, il candidato del governativo FpV ha ottenuto il 36,38% dei voti, appena il 2,5% più di Macri (che ha avuto il 34,35%). Rispetto all’elezione di Cristina Fernández, Scioli ha perso 14 punti percentuali e, rispetto alle ultime primarie di quasi due mesi fa, ne ha persi due (mentre Macri ne ha guadagnati quattro, a spese della lista governativa e dei partiti minori). Mentre tutti erano convinti che Scioli potesse vincere al primo turno, superando il 40% dei voti e con uno scarto superiore di dieci punti rispetto a Macri, ora egli dipende invece da quel che deciderà quel 21,4% dell’elettorato che ha votato per Sergio Massa, peronista di destra che Cristina Fernández, da presidente, aveva nominato Capogabinetto (Primo ministro), fino a che non si accorse che il suo “uomo di fiducia” era un regolare informatore dell’ambasciata statunitense.

A complemento della sconfitta, il FpV ha perso 26 deputati e ne avrà solo 117, non avendo più, così, la maggioranza assoluta alla Camera bassa [parlamento] (che richiede 125 voti), anche se la conserva al Senato. Macri, da parte sua, con la coalizione Cambiemos [Cambiamo], ha ottenuto 91 seggi, che dovrà per giunta suddividere tra i rispettivi blocchi dei partiti che la compongono (soprattutto, la Unión Cívica Radical [Unione Civica Radicale] e il PRO di Macri, che conosce molte differenziazioni interne). Se quindi verrà eletto Scioli, dovrà trattare con un parlamento incontrollabile e, se l’eletto sarà Macri, dovrà negoziare ogni progetto di legge con il FpV o governare a furia di soli decreti d’urgenza senza sostegno parlamentare.

Il tratto caratteristico centrale delle elezioni è stato che ai votanti si presentava la scelta tra tre candidati di destra, al servizio di industriali e finanzieri e molto simili per il loro passato e le loro proposte, e che inoltre i principali candidati rapppresentano varianti diverse della destra peronista e hanno in comune la loro formazione politica al seguito di Carlos Saúl Menem, il presidente del neoliberismo oltranzista e della totale dipendenza dagli Stati Uniti. I tre propongono, in modi diversi e con differenti collocazioni, l’indebitamento con l’estero, la svalutazione del peso e una ristrutturazione (in sostanza, la riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori) e la repressione dei conflitti “corporativi”. Tutti e tre si avvarrano inoltre dei ricchissimi conservatori che dirigono le burocrazie sindacali per frenare le proteste operaie e hanno già tenuto riunioni con i principali “sindacalisti” peronisti di cui promuovono l’unità.

Il peronismo ha sempre costituito un movimento borghese con base sociale operaia e popolare, con dirigenti appartenenti al ceto medio preoccupati prima di ogni alra cosa di preservare i profitti capitalistici. Il suo grande merito agli occhi della borghesia argentina e mondiale consiste nell’aver diffuso in tutte le classi un’ideologia nazionalista e clerical-reazionaria e nell’avere in ogni modo possibile ritardato il formarsi di una coscienza autonoma e di classe tra i lavoratori, con il sostegno dei suoi “intellettuali progressisti”, mistificatori del passato storico e del mondo attuale.

Per questo la maggioranza del paese è conservatrice e cieca quanto ai risultati dei suoi voti e ha scelto tra alcune delle tre indigeste salse che le si proponevano per essere divorata dal capitale, grazie appunto a questo conservatorismo e all’infamia dei partiti socialista e comunista i quali, dopo essersi alleati con Washington e l’oligarchia anti-Perón nel 1945, schiudendole la strada per il controllo della classe operaia, passarono a subordinarsi incondizionatamente agli epigoni del peronismo (Scioli ha avuto questa volta anche “socialisti” e “comunisti” nelle sue liste di deputati).

Tale conservatorismo tranquillizza i capitalisti e offre un margine di manovra tanto a Scioli come a Macri per alleviare la pessima situazione economica e adottare misure antipopolari. L’egoismo e il consumismo, così come il conservatorismo dei ceti medi che si esprime solo nel razzismo nei confronti degli immigrati boliviani, paraguayani o peruviani e nelle competizioni sportive, dà ai potenziali presidenti margini per la repressione antioperaia e anticomunista, nonché per il riallineamento con Washington.

Indubbiamente, Cristina Fernández emerge come marescialla della sconfitta, con la sua prepotenza e la sua cecità politica nell’attaccare per anni Scioli, per poi presentarlo come candidato, o scegliere come candidato a governatore della provincia di Buenos Aires un impresentabile reazionario quale Aníbal Fernández. Nel peronismo governativo si aprirà di conseguenza una polemica pubblica tra i kirchneristi che restano a terra e gli sciolisti che probabilmente cercheranno di recuperare i destri tradizionali di Massa e fondersi con loro, non solo per vincere il ballottaggio del 22 novembre, ma anche per disporre di maggiore potere negoziale.

In queste condizioni, il Frente de Izquierda e de los Trabajadores (Fronte di Sinistra e dei Lavoratori) (FIT) ha avuto un buon risultato alle presidenziali, con il 3,75% e 800.000 voti, senza tuttavia raggiungere il 4% sperato né recuperare tutti i voti della precedente tornata presidenziale. A Buenos Aires ha avuto il 6%, il 4% nella sua provincia, il 12% a Mendoza e una buona vittoria a Jujuy, a prescindere dai contrasti interni, che gli hanno fatto perdere un possibile maggiore sostegno. Ora appare come l’unico asse della sinistra, soprattutto agli occhi di giovani lavoratori delle fabbriche dove si avranno conflitti in conseguenza del crollo delle esportazioni in Brasile e in Cina e del consolidamento del dollaro.

Anche nel FIT si impone la necessità di un bilancio politico e di un salto del livello politico dei propri membri, per contribuire a far maturare una coscienza anticapitalista nel momento in cui si resiste all’inevitabile offensiva del capitale e dei suoi governi…

dal blog Movimento Operaio Traduzione di Titti Pierini

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