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Etiopia “made in Italy”: così muore la Valle dell’Omo

Una diga ciclopica iniziata una decina di anni fa, centinaia di migliaia di ettari destinati a coltivazioni “coloniali”, lo sviluppo come paradigma del profitto: a farne le spese sono le popolazioni e l’ambiente

di Giampaolo Martinotti

Grand Ethiopian Renaissance Dam Project

Sta diventando sempre più difficile ricevere e inviare informazioni dalla Valle dell’Omo, situata in una delle più remote regioni dell’Etiopia meridionale, nella quale il giornalismo è sottoposto a dinamiche di anti-terrorismo. Questa è in pratica la recente denuncia, che non trova il dovuto risalto sui media “mainstream”, di Human Rights Watch e Survival International. Proprio quest’ultima si occupa da anni di monitorare le drammatiche ricadute socio-ambientali della diga GIBE III, collocata all’interno di un più vasto progetto idroelettrico.

Avviato ufficialmente nel 2004 si tratta della costruzione in terra etiope della più vasta rete di dighe del continente africano con il contributo della Banca Mondiale, di investitori internazionali e del governo italiano che tramite la Farnesina aveva stanziato 220 milioni di euro fino all’apertura di una inchiesta penale da parte della Procura di Roma a carico del Ministero degli Affari Esteri poi archiviata.

Lo scopo essenziale del progetto è quello di produrre una eccezionale quantità di energia elettrica mentre, deviando il corso delle acque del fiume, si verrebbe a creare la più grande piantagione di canna da zucchero al mondo destinata poi alla produzione di biocarburanti.

Da qui ha inizio però il calvario delle varie tribù semi-nomadi che abitano da secoli la Valle dell’Omo, Patrimonio dell’Umanità UNESCO. In questi anni, a quanto riportato da varie Ong che si battono per il rispetto dei diritti umani, la loro resistenza pacifica in difesa della propria terra e della sopravvivenza è stata a più riprese repressa con estrema brutalità dalle forze governative etiopi.

veduta diga GIBE III

In un report, pubblicato dalla CNN nel gennaio 2013, si parla del massacro di oltre 150 persone presumibilmente avvenuto in un villaggio Suri nei pressi della valle in questione.

Oggi, le stesse popolazioni dei Mursi, dei Bodie dei Kwengu, si trovano ad affrontare un’altra minaccia per la propria esistenza: l’ennesima “delocalizzazione” forzosa in campi di “reinsediamento”, che verrebbe ottenuta con mezzi di coercizione violenti. Tutto questo accadrebbe in vista della riconversione delle loro terre in redditizie monocolture irrigue. E non importa se le vite, gli usi e i costumi di queste tribù indigene, che da tempo risultano essere dipendenti dagli aiuti internazionali, siano già state sconvolte irrimediabilmente dai lavori di costruzione della diga, a quanto confermato da un rapporto pubblicato alcuni mesi fa da una delegazione di diplomatici europei in missione nella zona nel 2014. Per i “tecnici” e le aziende costruttrici i possibili sconvolgimenti ambientali sono minimi e “sostenibili”.

lavori nella Valle dell'Omo

Forse l’italianaSalini CostruttoriS.p.A di Roma, che dirige la progettazione e la costruzione proprio della diga GIBE III dal 2006, dovrebbe tenere presente anche le perplessità che scaturiscono dagli studi indipendenti effettuati da diverse Ong. Gli stessi risultano antitetici, e parlano di ingenti danni sociali e ambientali, devastazione delle biodiversità e degli ecosistemi esistenti, scomparsa della pastorizia e dell’agricoltura di sussistenza, possibili conflitti futuri per la scarsità di acqua, fino a elencare le ormai tristemente famose pratiche di “land-grabbing”.

Il governo italiano, che dal disastro del Vajont del 1963 di strada ne ha fatta, tra il 2013 e il 2015 è riuscito a sfiorare i 100 milioni di euro raddoppiando, dal canto suo, i fondi per lo sviluppo destinati proprio all’Etiopia, prima tappa del viaggio in Africa di Matteo Renzi nel luglio di quest’anno.

Verrebbe quasi da pensare a una Italia che finanzia con soldi pubblici la realizzazione di un progetto di sviluppo etiope nelle mani di una importante azienda italiana presente sul territorio della ex colonia da più di mezzo secolo. Ma forse quello che dovrebbe far davvero riflettere è il fatto che, attualmente, più di 200mila persone vedono il proprio già precario futuro messo in serio pericolo da un piano che segue la solita dinamica spegiudicata del “profitto costi quel che costi”.

[nel video, Renzi in visita alla diga della Valle dell’Omo]

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