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Jobs act, padroni a tutele crescenti

Il Jobs Act, ultima tappa di un viaggio iniziato con il pacchetto Treu verso il definitivo smantellamento dei diritti dei lavoratori italiani

di Dario Guarascio*

la piazza dei metalmeccanici mezza vuota del 21 novembre 2015
la piazza dei metalmeccanici mezza vuota del 21 novembre 2015

Dalla metà degli anni ‘90 tutti i governi italiani, indipendentemente dal loro colore politico, hanno lavorato per trasformare radicalmente il mercato del lavoro. L’obiettivo di tali cambiamenti era quello di promuovere la competitività del paese e di incrementare la partecipazione al lavoro dei giovani e delle donne, due categorie occupazionali tradizionalmente sottorappresentate nel sistema economico italiano. Seguendo una rappresentazione dell’economia strettamente neoliberista, una quantità crescente di flessibilità è stata introdotta con l’intenzione di rendere i lavoratori italiani adeguatamente ‘dinamici e flessibili’. Una flessibilità attraverso cui, il presunto divario tra i salari e la produttività del lavoro – divario identificato quale causa principale della scarsa capacità competitiva dell’economia italiana – sarebbe stato finalmente colmato.

Contrariamente agli obiettivi dichiarati, tuttavia, la produttività italiana ha continuato a ristagnare durante tutto il processo di liberalizzazione. Il tasso di occupazione dei giovani e le donne, sebbene contrassegnato da una dinamica altalenante rispetto a quello della produttività, ha avuto un evoluzione ben distante rispetto agli obiettivi prepostisi inizialmente. Inoltre, in termini di competitività, l’Italia non ha particolarmente beneficiato delle riforme: la progressiva riduzione dei diritti dei lavoratori e l’introduzione di maggiore flessibilità hanno portato le aziende a orientarsi sempre più verso strategie basate sulla ‘competitività di costo’. La conseguenza è stata, come mostrano le statistiche Eurostat dai primi anni 2000 in poi, una contrazione degli investimenti in ricerca e sviluppo pressoché simmetrica rispetto all’aumento del ricorso ai contratti flessibili e a tempo determinato. Questa tendenza ha coinciso con una perdita di competitività rispetto ai partner europei, in particolare nei confronti della Germania, dove la flessibilità del mercato del lavoro è stata accompagnata da un’accelerazione degli investimenti pubblici in tecnologia ed innovazione. Nonostante questo, le crescenti rivendicazioni per una revisione del programma di riforma sono state ignorate. In sintonia con la tradizione neoliberista vigente, in virtù della quale ricette di politica economica già comprovate per la loro inefficacia vengono riproposte a prescindere da ciò che i dati di realtà suggerirebbero, maggiori dosi di flessibilità son state introdotte per realizzare quel che non si era ottenuto attraverso gli sforzi precedenti.

La crisi economica ha prodotto una significativa accelerazione di questo processo. In Italia abbiamo assistito – come negli altri paesi del sud Europa – a un forte aumento del processo di liberalizzazione dagli inizi della recessione del 2008 in avanti. Queste riforme avrebbero dovuto contribuire a riequilibrare l’enorme debito esterno privato accumulato prima della crisi. Una massa di debito, perlopiù debito privato accumulato da banche ed imprese, che si è rapidamente trasformato in debito pubblico per gli interventi statali a sostegno del settore finanziario. E l’aumento del debito pubblico, assieme al crollo dell’occupazione, han rappresentato argomenti fortemente persuasivi per giustificare, politicamente, la necessità di nuove riforme destinate a promuovere la competitività, ripristinare la crescita e ridurre il debito. Nuova flessibilità, dunque, quale unica ricetta concepibile per affrontare i mali dell’economia.

In questo contesto, il Jobs Act di Matteo Renzi è stato l’ultimo capitolo del processo di riforma iniziato con la legge Treu del 1997. Il governo Renzi ha messo in atto quello che costituiva, sin dalla fine degli anni ’90, un obiettivo centrale della destra. Con la legge in materia di lavoro n.183/2014 (il Jobs Act), il governo ha eliminato qualsiasi obbligo per le imprese di reintegrare i lavoratori in caso di licenziamento ingiusto – in assenza di una colpa comprovata o di motivi economici per giustificare il licenziamento. Tale obbligo è stato sostituito da una indennità di retribuzione minima (pari a due stipendi per ogni anno lavorativo) per i lavoratori licenziati senza giusta causa. Così, dopo cinque anni di drammatica crisi, Renzi è riuscito a trasformare il pilastro centrale del diritto del lavoro italiano in qualcosa di simile ad una ‘mancia’. Un compenso che può essere ulteriormente ridotto per i dipendenti che ‘accettino’ di rinunciare a qualsiasi contenzioso legale in cambio del pagamento immediato della somma – o di una parte di questa- a loro dovuta.

Due cambiamenti introdotti dal Jobs Act meritano di essere analizzati con attenzione. Il primo è l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale, che sostituisce il precedente ‘contratto a tempo indeterminato’, destinata a diventare dominante nel mercato del lavoro italiano. Questo nuovo contratto denominato ‘contratto a tutele crescenti’, non prevede alcun obbligo per il reintegro dei lavoratori in caso di licenziamento senza giusta causa. Dopo quaranta anni scompare, dunque, un elemento di bilanciamento fondamentale nelle relazioni industriali, quella che i giuslavoristi definiscono ‘tutela reale’. La seconda modifica riguarda la possibilità, per i datori di lavoro, di controllare i dipendenti a distanza utilizzando diversi tipi di dispositivi elettronici. Il provvedimento, molto criticato per i rischi di violazione della vita privata e della libertà personale dei lavoratori che esso comporta, è stato adottato in nome della necessità ‘di migliorare la produttività dei lavoratori’. Questi due elementi danno la misura di una norma destinata a trasformare radicalmente il rapporto tra capitale e lavoro in Italia.

Per migliorare gli effetti della nuova legge il governo Renzi ha unito al Jobs Act un significativo ‘regalo’ per le aziende, esonerandole dal pagamento di parte degli oneri sociali a patto che le stesse adottino il nuovo ‘contratto a tutele crescenti’. La legge prevede incentivi per i datori di lavoro che trasformino i contratti di lavoro esistenti da tempo determinato a tempo indeterminato o assumano direttamente con un contratto a tempo indeterminato. Contratti a tempo indeterminato che, ovviamente, avranno le sembianze del ‘contratto a tutele crescenti’ appena introdotto con il Jobs Act. Nel corso dei prossimi tre anni questi incentivi ammonteranno a circa 15 miliardi di euro, all’interno di un contesto dominato dai tagli alla spesa pubblica in tutti gli altri settori dello stato sociale.

Renzi ha difeso la sua legge a spada tratta sostenendo che, attraverso la diffusione dei nuovi contratti a tutele crescenti, verrà favorita in modo sostanziale la stabilità dell’occupazione. Purtroppo, il premier si dimentica di dire che i nuovi contratti sono a tempo indeterminato – e, dunque, stabili – solo nominalmente, poiché, in realtà, forniscono completa libertà di licenziamento alle aziende. I primi dati disponibili (tenendo conto che il Jobs Act è stato introdotto in via definitiva solo la scorsa primavera) sono stati oggetto, negli ultimi mesi, di una polemica piuttosto interessante. Probabilmente spinto dall’ansia di annunciare gli effetti straordinari di una misura così impopolare, il governo ha fatto un grave errore di sovrastima nel diffondere i dati occupazionale relativi ai primi sei mesi del 2015.

Come rivelato da Marta Fana su il manifesto, i primi dati riguardanti l’aumento dell’occupazione pubblicati dal Dipartimento del Lavoro dopo l’introduzione del Jobs Act erano sovrastimati per più di un milione di unità (1.195.681 per l’esattezza). Senza bisogno di entrare nel merito di un errore così grossolano ed imbarazzante per un organismo governativo, emerge, nuovamente, l’ossessione del governo italiano per la difesa di misure – di austerità – che tendono, costantemente, a produrre esisti opposti a quelli preannunciati. In questo caso, un esito fatto di ulteriore precarietà e da una conseguente pressione al ribasso sui salari.

Vi sono, quindi, scarse speranze che il Jobs Act produca gli effetti sensazionali continuamente annunciati da Renzi. Ma una cosa oggi è certa, dinanzi alla disoccupazione che conosce il suo più alto livello dal 1997 (e per i giovani dal 1970): i lavoratori italiani hanno perso la più importante protezione su cui potevano contare dall’introduzione dello Statuto dei Lavoratori in poi.

* Pubblicato sul blog ‘Changer l’Europe’ del quotidiano Libération il 13 novembre 2015. Dario Guarascio è un dottorando in economia politica presso l’Università La Sapienza di Roma. Collabora con il manifesto, Sbilanciamoci! Popoffquotidiano.it e Contropiano.org.

Traduzione di Giampaolo Martinotti

 genova, lo sciopero generale del 2014 quando il jobs act ormai era passato
genova, lo sciopero generale del 2014 quando il jobs act ormai era passato

1 COMMENTO

  1. Prima lo smantellamento delle grandi fabbriche, luoghi di discussione e lotta, esportate, chiuse ad arte e ridotte a piccole filiali, la crisi……..divide et impera……….oramai più nessuno ha voglia di combattere……….sunset boulevard……

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