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Ventimila cinesi poveri per l’edilizia di Israele

Israele pronto a reclutare lavoratori cinesi senza diritti (e che pagheranno una tombola per l’ingresso nel paese) per abbattere i costi del lavoro nell’edilizia

di Angelo Motola*

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Il governo israeliano, su iniziativa del Ministro delle Finanze Moshe Kahlon, sta pianificando l’assunzione di 20.000 lavoratori edili cinesi al fine di costruire più appartamenti e tagliare i prezzi delle case. Il progetto non prevede alcun tipo di accordo commerciale bilaterale tra Israele e Cina, ciò vuol dire che ad occuparsi della gestione delle assunzioni saranno le agenzie di collocamento private, così come avveniva in passato. Reclutamenti di questo tipo hanno spesso conseguenze disastrose sui diritti dei lavoratori stranieri e si traducono in standard di sicurezza pericolosamente bassi, la negazione della dignità umana e il susseguirsi di violazioni spesso taciute per paura di ripercussioni.

Tale pratica rischia di riportare Israele indietro di un decennio, mettendo a rischio la riforma dei processi di reclutamento dei lavoratori stranieri adottata nel 2005, che prevede l’obbligo e la responsabilità di attivare accordi bilaterali con i Paesi d’origine, sotto l’egida dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), al fine di aprire canali governativi ufficiali, tutelare i lavoratori, eliminare dal processo selettivo i vari mediatori ed intermediari, e spostare la gestione dalle mani delle agenzie private, le cui pratiche sono risultate, troppe volte, poco o per nulla trasparenti.

Dal 2005 ad oggi il governo israeliano ha firmato accordi bilaterali con numerosi Paesi, tra cui la Romania, Bulgaria, Moldavia e Thailandia. Queste intese hanno portato in primo luogo ad una riduzione dei casi di lavoratori costretti a dover pagare cifre esorbitanti per accedere ai permessi di lavoro e di viaggio verso Israele. A diminuire sono stati anche gli episodi di lavoro forzato e permanenza obbligata e senza tutele presso lo stesso datore di lavoro.

Tuttavia, nonostante la legge, permangono situazioni di grave costrizione ed abuso, in particolare nel settore agricolo, come evidenziato da un recente rapporto di Human Right Watch (HRW) sulle condizioni dei braccianti stranieri impiegati in Israele, soprattutto thailandesi. I controlli risultano ancora inadeguati e negli ultimi 5 anni sono state emesse solamente 15 sanzioni contro le imprese agricole e i loro intermediari per violazioni dei diritti dei lavoratori.

Nel 2010, diversi lavoratori cinesi hanno denunciato di aver pagato cifre intorno ai 30.000 $ come spese per l’accesso al lavoro e alla migrazione verso Israele. L’aver maturato un tale passivo rappresenta il primo di una lunga serie di passi verso la negazione dei diritti e lo sfruttamento, che gli stessi lavoratori non sono disposti a far emergere per paura di perdere il lavoro e non estinguere il loro debito, il più delle volte finanziato con misure estreme come l’ipoteca sulla casa o prestiti nel mercato nero. Come denunciano le opposizioni, le sigle sindacali e le organizzazioni in difesa dei diritti umani, il rischio maggiore è che si ritorni a condizioni di discriminazione e grave violazione dei diritti umani dei lavoratori immigrati.

La legge del 2005 sul processo di reclutamento dei lavoratori stranieri in Israele, pur con alcune carenze nei controlli, rappresenta un precedente normativo positivo e a questo punto irrinunciabile per il riconoscimento di uguali diritti e tutele per i lavoratori stranieri nel mercato del lavoro israeliano. La volontà del governo di venir meno ad accordi bilaterali con la Cina ed accelerare sulla costruzione di nuove abitazioni al fine di abbassare i prezzi è dettata dal desiderio di voler mantenere una promessa elettorale e perseguire l’obiettivo di un ulteriore allargamento degli insediamenti nei territori occupati.

Shelly Yachimovich, parlamentare del partito di opposizione di centro sinistra Zionist Union Party, ha attaccato la decisione del governo affermando come tale piano porterebbe insieme ad una spinta verso il basso dei salari dei lavoratori israeliani più poveri ed allo sfruttamento dei lavoratori cinesi in Israele. Della stessa opinione è Kav LaOved, ong attiva per la difesa dei diritti dei lavoratori, che per voce di uno dei suoi legali, Hanny Ben Israel, in un’intervista al Financial Times, ha dichiarato: “Quando i lavoratori arrivano in Israele dopo aver pagato ingenti somme di denaro, lavorano in una condizione di preliminare debito. Questo influenza direttamente la loro volontà o capacità di lamentarsi in caso di violazioni dei loro diritti”.

Un fenomeno che ricorda da vicino il sistema kafala, in arabo “sistema di sponsorizzazione”, una prassi ancora in uso in diversi paesi arabi del Golfo e anche molto contestata dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. La kafala consiste nell’obbligo per i lavoratori stranieri di avere uno sponsor nel paese, di solito il datore di lavoro, che è responsabile per il loro visto e il loro status giuridico. Spesso questo sistema finisce col degenerare in occasioni di sfruttamento e ricatto, con i datori di lavoro che confiscano i passaporti ed abusano della vulnerabilità dei lavoratori stranieri, rendendoli totalmente dipendenti dalla loro volontà, in una relazione che spesso è stata accostata a quella esistente in passato tra schiavo e padrone.

*Analista delle politiche d’immigrazione, dal 2012 collabora come ricercatore con l’Istituto di Ricerche Internazionale Archivio Disarmo (IRIAD)

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