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Siamo fatti della stessa materia dei canti

“Famiglie sonore” al venticinquesimo Festival del Mediterraneo in corso a Genova. Nei musei e nei palazzi storici genovesi, oltre 40 artisti di famiglie  di musicisti da tutto il mondo.

da Genova, Claudio Marradi

Dici Voci bulgare e pensi a Elio e le storie tese. Che all’ensemble vocale femminile dell’Europa orientale fecero cantare un irriverente “Pippero”, così lontano dal loro repertorio abituale. Ma avendo così il merito di presentare al pubblico italiano una tradizione fino ad allora conosciuta solo da etnologhi e raffinati musicologhi. Come Davide Ferrari, curatore di un Festival Musicale del Mediterraneo arrivato ormai al giro di boa del quarto di secolo senza perdere lo slancio di una ricerca che,  per la sua 25esima edizione,  ha scelto per titolo e tema quello delle “Famiglie sonore”. Perché anche la musica è sempre stata nelle società tradizionali –  al pari di affetti e dei famosi panni sporchi da lavare al riparo da occhi indiscreti – un affare di famiglia.

E proprio “Bisserov Family” è il nome della formazione delle quattro donne, una madre e tre sorelle che si sono esibite nel chiostro triangolare del Museo di Sant’Agostino,  all’ombra del campanile gotico decorato di mosaici dell’omonima chiesa nel cuore del centro storico genovese. Lyubimka Bisserova alle percussioni, Mitra Bisserova al liuto, Neda Bisserova al tamburino e Vera Stefanova Ignatova solo voce, che dal 1996 promuovono e tramandano  in tutta Europa una tradizione di cori polifonici, trasmessi di generazione in generazione con la loro particolarità di voci parallele a intervalli di seconda, di settima e di nona,  ritenuti enigmaticamente dissonanti nel panorama della  musica popolare occidentale.

Che poi il “Pippero” alla fine l’hanno intonato veramente, unica concessione pop in un repertorio di canti contadini di festa e di lavoro, di matrimoni, amori e tradimenti o nell’infinita malinconia di storie di  villaggi dei monti Pirin che si spopolano lentamente e finiscono per essere abitati solo da pochi anziani. Oppure ancora nei canti di ispirazione religiosa, nella tenerezza di fronte al mistero della nascita o lo stupore di fronte a quello  della resurrezione del Natale e della Pasqua Ortodossi.


 
E’ forse l’appuntamento  più struggente di un programma che per dieci giorni di concerti porta,  nei musei e nei palazzi storici genovesi, oltre 40 artisti di famiglie  di musicisti da tutto il mondo.  Da Madou Zon Family, un ensemble di artisti provenienti dal Burkina Faso, facenti parte della stessa famiglia che si esibiscono insieme fin dalla tenera infanzia, alla Famiglia Giannuzzi dal Salento che ha portato per le piazze e le vie del centro storico un’anticipazione gratuita del suo spettacolo di pizzica e taranta. Dall’esibizione di Roger Eno, fratello di Brian Eno e affermato compositore di musica ambient, ai tamburi taiko della Famiglia Parisi, liguri che si dedicano alla pratica delle percussioni giapponesi. E poi il Trio Chemirani dall’Iran, straordinario ensemble familiare che comprende tre generazioni di polistrumentisti, il tributo a Paco de Lucia da parte di Juan Carmona Family Group, uno dei maggiori chitarristi flamenco contemporanei a Palazzo Ducale la prima nazionale dei dervisci rotanti Ahmad Alkhatib & Broucar, padre e figlio dalla Siria, accompagnati da un ensemble di musicisti di Damasco, sabato 10 settembre sempre a Palazzo Ducale, e il coro polifonico sardo dei Tenores di Santa Sarbana di Silanus, domenica 11 settembre a Palazzo Tursi.  
Come se la guerra non esistesse, come se gli ultimi cinque anni di massacri non fossero mai cominciati, come se un popolo non fosse mai stato messo in fuga e disperso. E come se una nazione intera non fosse stata dilaniata in una guerra civile fabbricata su misura per i soliti inconfessabili interessi petroliferi. Vedi alla voce gasdotti, per essere più precisi.
E’ il piccolo miracolo laico che la musica riesce a produrre tra le statue di marmo e sotto la volta del soffitto affrescato della Sala del maggior consiglio di Palazzo ducale di Genova. Il penultimo appuntamento con le “Famiglie sonore” che danno il titolo alla 25esima edizione del Festival musicale del Mediterraneo ha infatti chiamato sul palco la Siria, nei componenti dell’ensemble Ahmad AlKhatib & Broucar, che ha presentato l’unione tra la danza dei dervisci e la musica classica araba. Il gruppo Broucar, formato nel 2007 dal nome di un’antica fabbrica artigianale di Damasco, propone un repertorio di musica tradizionale e religiosa con strumenti della cultura mediorientale: il flauto ney, il liuto, l’oud e le percussioni. Tutti membri di diverse orchestre di musica classica, sono originari di Damasco, capitale artistica e culturale del mondo arabo prima dell’inizio del conflitto. Al centro della scena Ahmad Alkhatib e suo figlio di dieci anni, piccolo derviscio tourner che si ispira a una tradizione mistica Sufi che cerca la perfezione e lo smarrimento di sé nel divino attraverso la musica e la danza, nella rotazione accelerata di un corpo attraversato dalla sfida di unire, nella mano rivolta verso il basso e in quella rivolta verso l’alto, cielo e terra. E’ un Corano il loro, lontano anni luce dalla lettura integralista di origine wahabita e di marca saudita, ispiratrice e forse anche finanziatrice – secondo molti commentatori – delle gesta dei tagliagole del Daesh.
Perché un altro Islam è sempre stato possibile ed è sempre esistito, dall’Anatolia al Pamir, lungo gli itinerari di una Via della seta in cui si è nel tempo contaminato di infinite suggestioni buddhiste, zoroastriane, perfino sciamaniche nei culti preesistenti alla conquista araba. Tollerante in fatto di costumi e pacificamente convivente con le altre religioni del Libro, incline alla poesia e al dialogo interiore. Ma oggi drammaticamente oscurato dagli attentati di matrice terroristica che hanno insanguinato il Vecchio continente.
E tocca poi al padre riempire la scena con la sua lunga gonna nera ricamata di bianco, che si slaccia e si sdoppia, si stripla fino a formare un ampio mantello che forma un vortice velocissimo sulla sua testa, oppure piegato e ripiegato fino a formare la sagoma di un neonato, cullato teneramente nella spirale della danza, prima di essere restituito alla sua natura di tessuto inerte ed essere gettato in un angolo del palco. Trottola umana infine, che scende tra le file del pubblico nella sua folle corsa – ma di una follia come potrebbe essere quella dei “folli di Dio” della tradizione mistica russa – a terminare uno spettacolo sorprendente e travolgente. Eppure dimezzato dall’ottusità delle misure antiterrorismo di un’Unione europea terrorizzata ad arte, la cui politica estera nella destabilizzazione del Medio oriente ha molte responsabilità. E che all’aeroporto di Bruxelles ha voluto sequestrare parte della strumentazione di questi artisti, che vivono in esilio e che per vivere insegnano musica araba. E che dalla guerra erano fuggiti come profughi tra i profughi. Come tutti quelli respinti da muri e fili spinati e bloccati nelle tante terre di nessuno che si sono aperte come crateri tra i Balcani e l’Austria. Inghiottiti in quel buco nero di esistenze e di speranze, destini individuali e collettivi, che risponde oggi al nome di Europa.
Tutte le info e il programma sul sito dell’associazione Echo Art, che produce il Festival: www.echoart.org

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