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Pomigliano: la Fiat uccide, digli di smettere

Dalla parte dei 5 lavoratori licenziati da Marchionne per aver denunciato le responsabilità Fiat nei suicidi degli operai. Licenziamento confermato dal Tribunale di Nola. Il 20 settembre l’appello. Non lasciamoli soli

di Giorgio Cremaschi

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“NON SI PUO’ CONTINUARE A VIVERE PER ANNI SUL CIGLIO DEL BURRONE DEI LICENZIAMENTI. L’intero quadro politico istituzionale che, da sinistra a destra, ha coperto le insane politiche della Fiat è corresponsabile di queste morti insieme alle centrali confederali

Dopo aver lucrato negli anni scorsi finanziamenti pubblici multimiliardari, lo speculatore Marchionne chiude e ridimensiona le fabbriche Italiane e delocalizza la produzione all’estero per fare profitti letteralmente sulla pelle dei lavoratori che sono costretti ormai da anni alla miseria di una cassa integrazione senza fine ed a un futuro di disoccupazione.

A Pomigliano l’unica certezza dei cinquemila lavoratori consiste nella lettera di altri due anni di cassa integrazione speciale e cessazione dell’attività di Fiat Group Automobiles nella consapevolezza che buona parte di loro non saranno assunti da fabbrica Italia.

Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla Fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la fiat sta precipitando i lavoratori…”.

Così scriveva nel 2011 Maria Baratto, operaia di Pomigliano confinata da anni in cassa integrazione a Nola. Era militante  del sindacato SlaiCobas,  tra le animatrici del comitato delle mogli di Pomigliano e per il suo impegno a sostenere i tanti che non ce la facevano più,  era stata definita l’operaia anti suicidi.

Maria si è uccisa alla fine del maggio del 2014. Sola, nel suo povero appartamento che non ce la faceva più a tenere,  si è inflitta tremendi colpi di coltello al corpo. Ha sofferto a lungo prima di morire, a conclusione di una vita di soli 47 anni, di cui gli ultimi 6 di cassa integrazione. Maria non ha lasciato un testo nel momento in cui ha deciso di uccidersi, aveva gìa scritto tutto tre anni prima, quando lottava perché altri non si suicidassero. Solo pochi mesi prima, nel febbraio del 2014, Maria aveva subito un altro colpo. Peppe De Crescenzo, anch’egli operaio e militante dello SlaiCobas confinato in cassa a Nola, si era impiccato. Erano amici e compagni di lotte, Maria a quel punto ha cominciato a piegarsi… non si può continuare per anni a vivere sul ciglio del burrone…

La Fiat ha sempre violato diritti e libertà umane fondamentali nei confronti dei propri dipendenti. A cui è sempre stata negata la libertà di iscriversi al sindacato scelto,  di scioperare, di dire come la si pensa sul lavoro, di avere idee in conflitto con quelle della proprietà, della direzione, delle gerarchie aziendali. A tutti i livelli della Fiat è sempre stato impossibile fare carriera senza dimostrare fedeltà assoluta e servile verso chi  comanda. Questo è il primo e molte volte l’unico “merito” che vige davvero in azienda. E i dissidenti in Fiat sono sempre stati accomunati ai malati, agli invalidi, a tutti coloro che son stati giudicati non sufficientemente produttivi. Per tutti costoro la Fiat è sempre stata la feroce dispensatrice di punizioni, emarginazione, licenziamento. E il licenziamento in Fiat ha spesso significato la cancellazione dalla possibilità di ottenere qualsiasi altro posto di lavoro. I licenziati Fiat sono sempre finiti nelle liste nere di quelli da non assumere mai, per non incorrere nelle rappresaglie di chi li ha  espulsi dal lavoro. Chi la Fiat caccia deve diventare un emarginato per sempre,  esempio perenne per chiunque abbia in mente di non ossequiare l’azienda e chi la dirige.

Nel corso degli anni ci sono stati momenti nei quali la Fiat ha dovuto frenare i suoi brutali istinti autoritari, perché la forza organizzata dei lavoratori, i sentimenti della opinione pubblica, i poteri dello stato democratico, qualche suo stesso interesse contingente,  la costringevano a fermarsi e mascherarsi. È stato così subito dopo la Liberazione, negli anni 70, per brevi sprazzi degli anni 90 del secolo scorso. Ma appena il vento è cambiato la vera  natura del potere Fiat è subito riemersa, spesso più astuta e feroce di prima.

Uno degli strumenti dell’oppressione dell’azienda verso i suoi dipendenti sono sempre stati i reparti confino. Officine con attività e scopi sostanzialmente inventati, la cui unica  vera funzione  è sempre stata quella di tenere assieme coloro che l’azienda voleva colpire, ma che, ancora, non intendeva o poteva licenziare.

Negli anni ’50 Giuseppe Di Vittorio usò la Officina Sussidiaria Ricambi, OSR, a Torino come esempio di ciò ch’egli definiva il fascismo della Fiat guidata da Vittorio Valletta. In quel reparto furono confinati tanti attivisti e dirigenti della Fiom, tanto che tutti poi lo chiamarono Officina Stella Rossa. Che alla fine fu chiusa con il licenziamento completo di tutti i suoi dipendenti.

Negli anni 80, dopo la sconfitta sindacale e dopo anni di cassa integrazione per decine di migliaia di operai, furono create le Unità Produttive Accessoristiche, le famigerate UPA,  dove furono confinati i malati e gli attivisti sindacali giudicati rompiscatole irrecuperabili dall’azienda guidata da Cerare Romiti. La Fiat ha sempre avuto un gusto particolare nel dare nomi pomposi a quelle che in realtà erano semplici galere. La stessa sadica fantasia è stata usata negli anni 2000, sotto la gestione di Sergio Marchionne, nei confronti degli operai di Pomigliano.

World Class Logistic, si sente che la direzione aziendale oramai vive all’estero, è il nome ufficiale del reparto confino di Nola. Qui nel 2008 vengono trasferiti 320 operai operai di Pomigliano, gìa da tempo in cassa integrazione. Non vengono spostati nel nuovo reparto per farli lavorare, ma per lo scopo esattamente opposto. Non devono lavorare più. Dei trasferiti più di un terzo sono iscritti allo SlaiCobas, che così viene quasi cancellato a Pomigliano. Gli altri sono iscritti FIOM e poi malati e invalidi. E poi qualcuno che ha detto una parola di troppo su questo o quel capo, vittime dell’ultimo minuto quando l’infamia dei carnefici aggiunge anche qualche vendetta personale nella lista dei deportati.

Dal 2008 al 2014 i 320 lavoratori del WCL di Nola non hanno fatto un minuto di lavoro e hanno dovuto vivere con 800 euro di assegno mensile, in più sottoposti periodicamente alla minaccia che anche  quella misera somma dovesse venir meno. L’orlo del burrone. Decine i tentativi di suicidio o altre forme di autolesionismo, molti di più i casi di profonda depressione. Era stato così anche per i cassaintegrati degli anni 80 a Torino, sulle cui condizioni psichiche dovettero operare gli specialisti e le strutture sanitarie locali. Almeno 149 sono i suicidi allora documentati.

La strage è continuata a Nola, sia ben chiaro non per impossibilità tecniche di far lavorare tutti, ma solo per la volontà della Fiat di emarginare e distruggere le persone che non le piacciono.

Nell’agosto del 2014 Antonio Frosolone, altro operaio deportato, iniziava uno sciopero della fame e delle prestazioni farmacologiche. Antonio è un infartuato ed in questo modo metteva immediatamente a rischio la vita. Lo sciopero durava 15 durissimi giorni. Questa volta la Fiat capiva che qualche passo lo doveva fare e prometteva una  ripresa del lavoro. Graduale naturalmente e infatti ancora oggi un bel gruppo dei deportati di Nola lavora metà del tempo normale.

Comunque un’altra sua vendetta la Fiat l’aveva già realizzata,  licenziando Mimmo Mignano e altri quattro operai per la loro protesta dopo il suicidio di Maria Baratto.

Qui voglio porre una domanda. Come reagireste voi dopo anni di persecuzioni e miseria,  vedendo tanti amici e compagni crollare, perdersi, morire? Come reagireste di fronte al suicidio disperato di un’amica e compagna di sempre? Io ho pensato per me e non sono sicuro che la mia reazione sarebbe dentro le regole della legalità corrente.

Mimmo Mignano e gli altri invece hanno asciugato lacrime e rabbia e hanno trasformato la loro indignazione in una rappresentazione, anche per rompere il muro di omertà grandi e piccole che copre le malefatte della Fiat. I cinque operai hanno inscenato la loro morte davanti  ai cancelli del polo fantasma di Nola e hanno unito ad essa il suicidio di un pupazzo, che aveva la maschera  di Sergio Marchionne.

Per questo terribile delitto d’opinione,  per altro commesso al di fuori del posto di lavoro,  i cinque sono stati licenziati e il loro licenziamento è stato poi confermato dal Tribunale di Nola, che da sempre concede alla Fiat il diritto di fare tutto ed il suo contrario.

Mignano e gli altri così hanno perso anche gli 800 euro di cassa integrazione e ora  vivono in povertà assoluta, anche se nel loro impegno quotidiano non parlano mai di sé. Mignano e gli altri stanno in una dimensione morale che è totalmente estranea a coloro che li hanno licenziati e che che hanno perseguitato Maria Baratto. Schierarsi con questi operai contro la prepotenza medioevale della Fiat è un dovere civile e sociale, un discrimine sul quale misurare la coerenza  di chi si dichiara democratico

Il 20 settembre i cinque operai sono in appello a presso il tribunale di  Napoli e lì  si deciderà  quanta libertà e quanta giustizia ci  siano ancora in questo paese, per il lavoro e per tutti noi.

 

 

 

 

 

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