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Divi e “sessantottini” per il Sì: che tocca fare per restare nel giro

Referendum. Intellettuali italiani e nuovo regime: “l’uomo del Guicciardini” è immortale? Chi e perché sbandiera negli appelli l’entusiamo per il Sì

di Raul Mordenti

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Niente emana di più l’odore acre di un nuovo regime quanto le firme un calce agli appelli per il sì raccolte fra intellettuali e uomini di spettacolo. Qual è la particolarità sgradevole di tali appelli? Essa consiste nel fatto che i dipendenti si schierano coraggiosamente a sostegno di propri padroni o – se si preferisce – datori di lavoro.

Ci sono anzitutto i “nominati” dal Governo alla guida delle cento e cento lucrosissime agenzie statali o parastatali, quelli degli enti di ricerca e delle concessioni, delle giurie e delle authorities, dei comitati e delle commissioni, delle consulenze dai doppi e tripli stipendi, i quali si schierano tutti eroicamente con il Governo che li ha nominati.

E ci sono poi i dipendenti in senso stretto, quelli a libro paga della Confindustria, dei “giornaloni”, delle Banche, dei Ministeri, delle Regioni e dei loro mille enti, dei Comuni, dei Consorzi, della Lega, dei Sindacati governativi, degli Enti, di Raiset, etc.

Ci sono infine i divi (o le mezze calzette), i “volti noti”, la schiera degli “invitati”, degli “esperti”, degli “ospiti”, il cui successo (cioè la cui esistenza mediatica) dipende totalmente dall’essere o no graditi a chi decide le partecipazioni, le recensioni, i festival, i cast dei film o delle serie televisive, la concessione dei premi e dei premietti.

Credo che si possa seriamente dubitare (e, ne sono certo, sarebbe facile verificarlo con qualche intervista cattiva) che la maggior parte di questi intellettuali abbia letto la “riforma” che invita a votare. Non importa: quello che importa è che tutti costoro, fantozzianamente, assicurino a chi comanda la loro obbedienza. No, francamente non è un bel vedere.

D’altra parte, a giustificazione parziale di queste schiene curvate, occorre dire che Renzi si vanta di “non fare prigionieri”, chi non è con lui è contro di lui (come diceva un caporale immortalato da Brecht) e i licenziamenti sono pronti così come le immotivate promozioni: le vicende della Rai, i trattamenti speculari riservati alla Bignardi e alla Berlinguer, dovevano servire non tanto a colpirne uno quanto ad ammonirne cento. E sono serviti. Si spiega così un altro fenomeno relativamente nuovo (almeno dalla caduta del fascismo a oggi): quelli che hanno paura a pronunciarsi in pubblico, a dire francamente che sono per il No e si rifugiano nel “ci devo pensare” (citarne i nomi farebbe troppa tristezza, ma li abbiamo visti e sentiti tutti). Bisogna compatirli: tengono famiglia.

Ciò che tiene insieme questa corte non è più l’adesione a un partito (come qualcuno ancora crede) e non è nemmeno solamente l’adesione a una loggia: è invece ciò che si chiama  “il giro”, è fare parte di uno di quei “giri” di conoscenze, rapporti, servitù dai quali – nella miserabile organizzazione della cultura del nostro Paese – dipende il successo degli intellettuali.

D’altra parte è da sempre particolarmente gradito al padrone esibire i convertiti, come nei cortei trionfali degli imperatori si esibivano i capi delle rivolte con le catene della schiavitù al collo: un   ex-comunista pentito, così come in passato un rabbino convertito, vale cento punti. Oggi un Benigni che dopo essersi commosso (e averci commosso) nelle piazze di mezza Italia per la “Costituzione più bella del mondo” invita a rottamarla, si merita di essere esibito addirittura a cena dal padrone, beninteso dopo essere stato rivestito bene e con cravatta d’ordinanza. E forse ora capiamo meglio come mai nel suo film La vita è bella il campo di Auschwitz fosse liberato da una jeep americana e non dai soldati sovietici come in effetti è avvenuto.

Al corteo degli schiavi contenti di essere esibiti non sono mancati alcuni sciagurati che hanno presentato se stessi come “ex ’68”. Non conta qui dire che il sottoscritto conosce solo un paio di quei nomi, e si tratta di solito di persone già da decenni acquistate da Berlusconi. Quello che conta è che mai, neppure nelle situazioni politiche più aspre, mai a nessun militante del ’68 è saltato in mente di vendersi come “reduce”: troppo forte è sempre stata in tutti noi la decisione di non riprodurre altri “reducismi” del passato che non ci erano piaciuti affatto. A questi obbedienti invece, dopo aver venduto tutte le loro parti vendibili, non è restato altro che vendersi pure le lotte nostre, le lotte di un ciclo e di una generazione. Ma queste  lotte – con ogni evidenza – sono state e sono l’esatto contrario del progetto piduista di liquidazione della Costituzione che oggi ripropone Renzi.

Il fatto è che oggi – come non mai – abbiamo di fronte il potere italiano in quanto tale. Bisogna riconoscere questo merito al massoncello di Rignano d’Arno: aver ricomposto il fronte dei poteri   italiani come forse mai era accaduto in passato: dalla Confindustria alla Banca, dai sindacati governativi alla Federconsorzi, dall’ambasciatore USA ai palazzinari, da Marchionne agli onnipotenti di Bruxelles.

E i rapporti degli intellettuali italiani con il potere hanno una loro storia, antica e non gloriosa, che oggi si riproduce.

Il grande storico e critico della letteratura Francesco De Sanctis, ricercando all’indomani del Risorgimento i vizi atavici che avevano permesso i secoli della servitù e della “corruttela italiana”,  descrive in un passo celebre “l’uomo del Guicciardini”. Guicciardini aveva scritto nei suoi (splendidi) Ricordi la seguente agghiacciante descrizione del proprio comportamento: “Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de’ preti: (…)  Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici m’ha necessitato a  amare per el particulare mio la grandezza loro;”(Ricordi, 28).

De Sanctis commenta: “L’uomo del Guicciardini ‘vivit, imo in Senatum venit’ (“è vivo, anzi viene in Senato”), e lo incontri ad ogni passo.  E quest’uomo fatale c’impedisce la via…”, e ancora: “Il dio del Guicciardini è il suo particolare”.

Anche il dio dei nostri intellettuali che dicono sì è il loro m“particulare”, e il 4 dicembre occorre votare no anche contro costoro.

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