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Il prossimo Bonaparte non sarà Renzi

Il No ha vinto, Renzi se ne va. Questo referendum potrebbe aprire un nuovo ciclo di lotte

di Andrea Zennaro

naporenzi

Domenica 4 dicembre, mentre centinaia di migliaia di persone in lacrime in tutta Cuba hanno dato l’ultimo saluto al loro indimenticabile leader Fidel Castro con il secondo funerale più partecipato al mondo dopo quello di Nelson Mandela, in Italia si è tenuta la consultazione popolare sulla proposta di modifica della Costituzione.
Ha vinto il NO. E non di poco: quasi 20 punti di stacco. Non c’è stato nessun miracolo, solo un minimo di buon senso e una sana presa di posizione di tanti cittadini e cittadine contro una riforma sbagliata. E forse non c’è neanche granché da festeggiare, tutto resta così com’è, ingiustizie comprese. Se non altro, bisogna dire che una campagna mediatica massiccia e con toni molto accesi non è riuscita a convincere abbastanza. Non sono bastati i manifesti demagogici per le strade, né l’invadenza delle televisioni tutte schierate per il Sì, né le previsioni apocalittiche della Confindustria e dell’Unione Europea a far contento un governo mai eletto che voleva usare un plebiscito-farsa per recuperare la credibilità perduta. Persino il quesito della scheda elettorale è stato messo in forma di spot pubblicitario, ma non è bastato neanche questo. E non ci è riuscito nemmeno l’ex comico toscano scaduto, che da oggi ha un bel posto non alla Rai ma nell’Inferno del suo amato Dante, tra i consiglieri fraudolenti, o al massimo nel cast di un suo bel film, Pinocchio.
A tutto ciò bisogna aggiungere che il NO ha dovuto far fronte anche a quella grossa fetta di sinistra che per disperazione o per scetticismo a votare non ci è andata. E invece, con sommo dispiacere di Renzi e Napolitano, la rassegnazione non ha avuto la meglio. Prima di loro già Cameron nel Regno Unito e Orban in Ungheria avevano tentato di strumentalizzare a proprio comodo il voto popolare, ma anche a loro ha detto male, molto male. 
Ha vinto l'”accozzaglia”, come Renzi sprezzante definiva il fronte del NO. In effetti è stato uno schieramento molto variegato: non è stato soltanto il NO finto di Berlusconi e Brunetta né quello opportunistico di Salvini e Grillo, ma si è sentito il peso delle donne e degli uomini veri, quelli che studiano e lavorano, o meglio, che studiavano e lavoravano, prima che il Jobs Act togliesse loro ogni diritto e che la “Buona” Scuola mandasse studenti liceali a fare tirocini da McDonald’s o a lavorare gratis per Expo perché “fa curriculum”. Ha pesato la popolazione che lotta per difendere i propri diritti e i propri territori: esponenti di Venezia contro le grandi navi, della Sicilia e della Sardegna contro il MUOS e la basi militari NATO, di Bagnoli contro il commissariamento voluto dal Governo e i danni ambientali, dell’Aquila che non è stata ancora ricostruita, di chi a Milano Expo non lo voleva, dei centri antiviolenza per le donne a cui Governo e Comuni stanno tagliando i fondi, e della Val di Susa che da decenni continua strenuamente a impedire una grande opera inutile e dannosa. È stato invece preoccupante il silenzio della CGIL  durante quest’ultimo autunno: ha annunciato che avrebbe votato NO ma senza manifestarsi, proprio nell’anno in cui venivano rinnovati contratti di lavoro in tre settori fondamentali, pubblico impiego, commercio e metalmeccanica: quella di oggi sarebbe potuta essere la nuova vittoria del movimento operaio, e invece le bandiere rosse della FIOM hanno lasciato gran parte dello spazio a quelle bianche pentastellate. Ma le ambizioni bonapartiste dell’ex sindaco di Firenze sono comunque clamorosamente colate a picco.
Il referendum ha bloccato una riforma che avrebbe trasformato l’Italia in una sorta di Repubblica presidenziale e tolto diritti che erano frutto di decenni di lotte sociali. Non a caso sarebbe andata a braccetto con una nuova legge elettorale addirittura peggiore di quella da poco bocciata dalla Corte Costituzionale, una legge fortemente maggioritaria che dà a un’unica lista la maggioranza assoluta, rendendo di fatto inutile l’esistenza delle opposizioni parlamentari e cancellando ogni pluralismo. Il cosiddetto Italicum ha spaventose somiglianze con la legge Acerbo, voluta da Mussolini nel 1923, la quale assegnava il 65% dei seggi alla lista che avrebbe ottenuto il 25% dei voti, con l’aggravante di un doppio turno su modello francese che fa pensare a un tipo di Stato molto più Presidenziale che Parlamentare.
Matteo Renzi aveva dichiarato che se avesse vinto il NO si sarebbe tornati indietro di trent’anni: è un’ammissione interessante, perché trent’anni fa i lavoratori e le lavoratrici godevano di molti più diritti e tutele e le scuole e gli ospedali funzionavano notevolmente meglio di oggi. Ma questa affermazione del Premier nasconde anche altro: è da circa trent’anni che è in corso un reiterato tentativo di stravolgere la Carta del 1948 in senso presidenziale e federalista, accompagnando il tutto con l’irrisoria riduzione del numero di parlamentari. Ci aveva provato Bettino Craxi prima di Tangentopoli e poi Silvio Berlusconi nel 2006 (insieme alla Lega Nord che oggi vota contro un testo assai simile a quello di cui allora si faceva portavoce), ma fu un referendum a stroncare tale scempio. Forse è proprio a questi precedenti che alludeva Giorgio Napolitano, senatore a vita e unico uomo in Europa ad aver ripetuto il mandato di Presidente della Repubblica per due volte consecutive, con la frase “se si affossa anche questo tentativo di riforma è finita”. E invece oggi è stato ribadito di nuovo: NO!
Il NO che ha vinto non è la meta ultima, questo deve essere chiaro. La Costituzione così com’è ha svariati punti da rivedere e questo referendum apre un nuovo ciclo di lotte. Aver evitato il peggioramento non significa che ora ci si possa accontentare.
Ma alcuni articoli meritano totale rispetto. Ad esempio quel numero 11, “L’Italia ripudia la guerra”: cosa ci fa l’esercito ancora impegnato in Libia, Iraq, Afghanistan, Siria e altri fronti ancora? O l’Articolo 9, secondo cui “La Repubblica tutela natura e paesaggio”: leggendo quest’articolo la legge sulle trivelle che il referendum dello scorso aprile non è riuscito a bocciare salterebbe da sé, e quella consultazione non sarebbe stata neanche necessaria, e basta applicare quest’articolo per bandire per sempre il nucleare. E c’è forse bisogno di manifestare contro i finanziamenti alle scuole private, quando c’è l’Articolo 33 a sancire chiaramente che “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di formazione, senza oneri per lo Stato”? E che dire dell’Articolo 3, il più bello di tutti, il quale non si limita ad affermare che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”, ma aggiunge che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese”: applicando tale principio, sarebbe forse possibile varare il Jobs Act o permettere i ricatti dei vari Marchionne di turno?
Questa battaglia è vinta, o almeno così pare sul piano formale. Cosa succederà davvero da adesso in poi ancora non si sa. Renzi aveva tentato il ricatto morale delle dimissioni in caso di sconfitta, poi se l’è rimangiato, poi ha minacciato un governo tecnico, e invece stasera ammette la sconfitta assumendosene le responsabilità e dichiara che domani si dimetterà davvero, dato che la sua credibilità è ormai pesantemente compromessa. Ora tutto prosegue, le lotte in primis.

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