L’ultimo libro di Tiffany Watt Smith (The Book of Human Emotions), una ricerca sulla straordinaria articolazione storica e culturale del nostro vissuto interiore
di Carlo Scognamiglio
L’ultimo libro di Tiffany Watt Smith (The Book of Human Emotions. An Encyclopedia from Anger to Wanderlust, Wellcome Collection 2016) non è un semplice dizionario delle emozioni, né un atlante delle molteplici sfumature del nostro sentire. Si tratta invece di una ricerca puntuale e multidisciplinare sulla straordinaria articolazione storica e culturale del nostro vissuto interiore.
Il volume è preceduto da una bella introduzione, che mette in chiaro il punto di vista dell’autrice, indicando anche l’orizzonte di una necessità politica per l’approfondimento di questo tema. L’esigenza di rimuovere ogni equivoco si concretizza in primo luogo precisando che, quando parliamo dell’umanità, abbiamo a che fare con un essere storico, per nulla statico, nemmeno nelle sue strutture psichiche fondamentali. Lo stesso termine “emozione” è entrato nel lessico scientifico e popolare solo in tempi relativamente recenti. Prima del 1830, infatti, le persone provavano solo “passioni” o “sentimenti morali” oppure, al limite, “accidenti dell’anima”. La nostra dimensione sentimentale è stata prevalentemente agganciata al tema etico o al problema del controllo razionale delle passioni. A partire dagli anni Trenta del diciannovesimo secolo, ha cominciato a diffondersi, specialmente nel dibattito scientifico, un’altra lettura – anch’essa antica ma a lungo rimasta minoritaria – dei nostri processi emotivi. Mi riferisco alla chiave di intepretazione medico-biologica, fondata sulla teoria degli umori. Si tratta di approcci che trovavano fondamento nelle ipotesi di Ippocrate e poi riprese dalla medicina medievale islamica, trasmesse nel Rinascimento occidentale e giunte fino all’Ottocento, nella forma di una teoria dell’equilibrio di quattro sostanze corporee: bile gialla, bile nera, sangue e flegma. Lo squilibrio tra questi elementi sarebbe stato, secondo tale approccio la causa dei cambiamenti d’umore. Sarà poi il filosofo Thomas Brown, all’inizio dell’Ottocento a utilizzare per la prima volta il termine emotion seguendo questa chiave di lettura biologistica.
Tuttavia, com’è noto, il primo vero scienziato che ha deciso di sviluppare una lunga e dettagliata ricerca sul tema è Charles Darwin, con il celebre lavoro sulle Espressioni delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872); poco dopo di lui, dall’altra parte dell’Atlantico, si sarebbe misurato con questo tema, riconducendo il termine in un quadro concettuale più prettamente psicologico, il filosofo William James con i suoi Principi di psicologia (1890).
Tiffany Watt Smith ci ricorda che non solo il termine “emozioni” rinvia a una storia di diversa percezione delle alterazioni psico-fisiche, ma anche l’idea che esista un set di emozioni fondamentali, uguali per tutti gli esseri umani in ogni luogo e in ogni epoca storica, rispetto alle quali tutte le altre varianti si costituirebbero come combinazioni, è un’idea antica, ma errata. Persino nei precetti confuciani del “Li Chi” si parla di sei sentimenti basici, e una posizione analoga la si può trovare in Cartesio e in molti altri filosofi. Tuttavia, le ricerche antropologiche contemporanee tendono a contestare questo presupposto, così come meno certo appare quello che Darwin asseriva con sicurezza, e cioè che vi siano espressioni facciali (come il digrignare i denti che accompagna la rabbia) il cui significato sarebbe univoco per ogni essere umano. Si tratta di un pregiudizio occidentale, non sufficientemente fondato.
A questa meravigliosa molteplicità di varianti emotive è in fondo dedicato l’intero libro. Il volume è un originale vocabolario affettivo. L’autrice illustra in esso le emozioni più comuni, come l’ansia o il terrore, ma anche processi psichici peculiari, individuati in alcune culture, come l’ “abhiman” o la “mudita”, entrambi tipici della tradizione indiana. L’autrice dimostra non solo quanto profonde siano state le sue ricerche, ma dà prova di una buona capacità descrittiva, sintetica e chiara.
Molto interessante è tuttavia la conclusione dell’introduzione, che ci invita a riflettere sull’importanza di questo genere di ricerche. Troppo poco infatti ci soffermiamo a meditare su quanto le emozioni siano diventate interessanti nella società contemporanea. Non solo per chi le vive, ovviamente, ma soprattutto per chi ne può trarre profitto. Siamo tutti pronti a ribadire quanto il conoscere le proprie emozioni sia funzionale a sviluppare una buona resilienza o a gestire lo stress e migliorare le relazioni. Va bene. Ma quando ci fermeremo a ponderare che osservatori politici, governi nazionali e gruppi finanziari non fanno altro che monitorare e orientare i nostri processi emotivi?
Il libro di Watt Smith non si spinge oltre su questo terreno, ma ci offre l’occasione per misurare un problema. Il Novecento ci insegna quanto gli Stati totalitari avessero appreso a leggere e animare i sentimenti collettivi. Tuttavia, molto più dei governi sono stati attenti alle trasformazioni dei nostri bisogni interiori le multinazionali, che hanno poi rapidamente appreso a indurre quegli stessi processi attraverso forme di comunicazione sempre più pervasive, e che oggi ci portiamo in tasca senza poterne più fare a meno. Come operai della fabbrica taylorista, produciamo con i nostri semplici spostamenti le condizioni del nostro sfruttamento. Le nostre emozioni, le cui tracce lasciamo ogni istante sul tracciato del comportamento di consumo informatico, sono infatti il piatto più ghiotto per chi è mosso da fini di profitto o di controllo sociale.
La politica si adegua sempre con un po’ di ritardo ai cambiamenti, ma solo un cieco non si accorgerebbe che ormai la dimensione logica e razionale è completamente estranea al discorso politico. Altro che biopolitica! Quella è una categoria superata. Siamo entrati nella psico-politica, perché il vero petrolio del nuovo secolo non è il turismo (come scioccamente si dice), né lo sono le informazioni (che non valgono più nulla, perché sono troppe). Il vero tesoro sono le “intenzioni”, e il fatto divertente è che in teoria sarebbero nostre, private, addirittura inconsapevoli, ma di fatto sono consegnate a una fluttuazione pubblica, esposte così a potenti condizionamenti.
Conoscere le emozioni non ci aiuta a sottrarci immediatamente da questo processo, ma ci colloca su un livello di attenzione, che è indispensabile per qualunque aspirazione al cambiamento.