Assolti due ultrà della Lazio. Secondo il giudice non sarebbero razzisti ma solo sportivi. Molto sportivi
di Enrico Baldin
«Giallorosso ebreo» non ha nulla a che fare con l’odio razziale, ma con lo sport. E’ questo quanto emerso dalla sentenza di assoluzione per due ultrà laziali, Fabrizio Pomponi e Alessandro Pasquazzi, rei secondo l’accusa di aver propagandato odio razziale durante la partita Lazio – Catania giocatasi nel 2013. La sentenza è giunta tre anni e mezzo dopo che i due erano stati pizzicati dalle telecamere puntate sulla curva nord biancoceleste ad intonare il coro incriminato. Secondo il giudice che ha espresso la sentenza la locuzione “Giallorosso ebreo” riferito ai sostenitori della Roma, era una espressione «confinabile nell’ambito di una rivalità di tipo sportivo». «Mera derisione sportiva» si legge in un altro passaggio, in cui si fa menzione all’intento denigratorio collegabile ai concetti di razza, etnia o religione, ma comunque «non costituente alcun pericolo di diffusione di alcuna idea di odio razziale».
Parafrasando la sentenza del giudice, questo genere di rivalità sportiva tra le due squadre capitoline, dura da molto tempo. Un vero e proprio derby del grottesco giocato negli spalti oltre che nelle strade della città. Impossibile dimenticare gli striscioni che comparvero quindici anni fa durante un derby dalle parti della curva laziale: “Squadra de negri, curva d’ebrei”. A caratteri cubitali, e da intendersi solo come rivalità sportiva naturalmente, visto che gli appellativi erano rivolti ai rivali giallorossi. Oppure, nel 1998 quando dalla curva biancoceleste durante il derby fu esposto – sempre per mera derisione sportiva – “Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case”.
La rivalità sportiva è diffusa pure nella curva giallorossa, anche se i maligni sbagliando potrebbero confonderla con antisemitismo. Nel 2006 in occasione della partita Roma – Livorno, i tifosi romanisti si fecero immortalare con lo striscione “Lazio Livorno stessa iniziale stesso forno”. E giusto per togliere ogni dubbio sull’intento sportivo, ad essere esposto era anche lo striscione “Got mit uns” accompagnato da svastiche e croci celtiche, tradizionalmente note per il loro significato calcistico.
Un derby nel derby (continuiamo a parlare di sport) è quello che si è giocato su Anna Frank. Nel novembre 2013 in alcuni quartieri di Roma venivano diffusi adesivi raffiguranti l’adolescente ebrea che indossava la maglietta della Roma. Pochi mesi prima alcuni muri del quartiere Testaccio venivano imbrattati con la scritta “Anna Frank tifa Lazio”. Il tutto dopo una disputa giocata tra spalti e quartieri, su chi dovesse affiggere al petto la stella che, per chi ne dubitasse, non era quella concessa a chi vince dieci coppe Italia.
Oltre a questi, un fiume di altri episodi aberranti, susseguitisi nel corso degli anni. Ieri, a una settimana dalla giornata della memoria, il suggello nella sentenza di assoluzione che classifica a “sport” ciò che è antisemitismo. Uno strano modo di vivere lo sport, uno strano modo di interpretare la legge Mancino. Il giudice, del resto, non vede pericolo di diffusione di idee di odio razziale: da quelle parti le idee di odio razziale sono già sufficientemente diffuse.