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No, signor Canterini, non sarà una foto che vi ripulirà

Vorrebbe riscrivere la storia, Canterini, uno dei condannati della Diaz. A Genova con lui anche il poliziotto che consola la donna eritrea dopo la carica brutale di #piazzaindipendenza

di Ercole Olmi

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E’ un reduce della Diaz il sedicente poliziotto buono di piazza Indipendenza, quello immortalato dalla foto in cui sembra accarezzare una delle donne eritree sconvolte da quella che la prefetta di Roma ha chiamato operazione di cleaning. Si tratta di una lettera di Canterini a un noto quotidiano romano di destra: Colui che accarezza e consola una donna eritrea in lacrime, era anche a Genova, nel 2001, in azione alla scuola Diaz, durante il G8. Lo rivela Vincenzo Canterini, il suo comandante dell’epoca, ex responsabile del Reparto mobile di Roma, uno dei condannati per la mattanza cilena alla Diaz. I suoi celerini, secondo gli atti del processo, furono i primi a fare irruzione nella scuola. La sua lettera fa accapponare la pelle e le coscienze: «Sono quel Vincenzo Canterini che guidava gli splendidi poliziotti del Settimo Nucleo ingiustamente crocifissi per i fatti di Genova, più esattamente per la storia della Diaz. Ho pagato, e sto pagando, il conto», si legge nella lettera, intitolata «Una carezza dalla Diaz». «Ma da allora – prosegue – poco è cambiato: ad ogni scontro con agitatori di professione e violenti il partito dell’antipolizia, sempre più numeroso e sempre più coccolato dai media, trova il modo di girare la frittata e far passare i cattivi per buoni. Con il risultato che, dei buoni veri, non si preoccupa più nessuno». «Certo, si dirà, parla Canterini, quello della Diaz. E allora facciamo – continua il funzionario, oggi in pensione – che smettiamo di parlare di me e parliamo di un altro poliziotto, che so per certo essere un poliziotto modello e che da ieri, grazie a una foto, è diventato l’esempio della polizia dal volto umano. La patente di agente non picchiatore gliel’ha rilasciata lo stesso partito dell’antipolizia, commosso per la foto-simbolo che lo ritrae mentre accarezza una signora extracomunitaria. Lo sanno tutti a Roma chi è quel poliziotto – scrive Canterini – perché da anni rischia la pelle in piazza come tanti suoi colleghi che con me erano a Genova, ed erano alla Diaz. Quel bravo poliziotto non ha cominciato ieri ad essere un modello perché bene, anzi benissimo, si comportò all’interno di quella scuola che venimmo improvvidamente chiamati a sgomberare. Non se ne può fare il nome né il nomignolo perché chi ha visto la morte in faccia a Genova, come noi del Settimo, da quel giorno del 2001 non ha più un’identità». Secondo Canterini «la polizia è sana, lo è sempre stata e la gente lo sa. Non esiste un’altra verità, non esistono poliziotti buoni e cattivi. Portare rispetto a chi indossa una divisa è un dovere di tutti».

No, signor Canterini, dovrebbe essere lei a portare rispetto alle vittime del suo operato e dei suoi splendidi poliziotti di cui nemmeno i magistrati inquirenti conoscono l’identità perché, stando agli atti del processo, agirono travisati e l’amministrazione del Viminale si rifiutò ostinatamente di collaborare lealmente. Eppure se erano stati così «splendidi» (ferendo gravemente decine di persone inermi e operando 93 arresti illegittimi), non c’era ragione perché lei stesso, il loro capo, non fornisse la loro identità. No, signor Canterini, non esiste un partito dell’antipolizia, esistono partiti e governi che hanno nutrito e assecondato i peggiori spiriti di corpo nelle polizie e nelle forze armate, per assicurarsi la fedeltà degli apparati e il pacchetto di voti di cui è depositaria la casta in divisa. Esiste una subcultura che costruisce guerrieri con una personalità autoritaria e fascistoide (se ha tempo si legga Theodor Adorno), che rende opachi i comportamenti, le caserme e le galere, e produce ogni giorno abusi fino ad arrivare all’omicidio. Esistono lavoratori in divisa che hanno diritto a un’educazione e un’addestramento più consoni e a veri sindacati, con diritti pari a qualsiasi altro lavoratore, piuttosto che avere sindacalisti che, per preparare la propria ascesa in parlamento, sono pronti a spellarsi le mani per applaudire i condannati in divisa e insolentire le madri e i parenti delle vittime di malapolizia. Esistono cittadini e associazioni, legali, psicologi, giornalisti che si battono contro gli abusi, per il diritto dentro e fuori le celle e le questure e nelle piazze. O forse il partito dell’antipolizia è quello composto da chi scredita la divisa e calpesta la Costituzione su cui giura? Se è questo che voleva dire, le chiedo venia, sono d’accodo con lei.

A Genova, ricordi bene, si verificò la più grave sospensione dei diritti umani in Occidente dalla fine della seconda guerra mondiale. E’ scritto nelle sentenze Diaz e Bolzaneto, e nella relazione di Amnesty international.

No, non è una foto che ripulirà l’immagine delle polizie, né riscriverà la storia.

E quella foto non è un simbolo (questo senza negare l’indubbia carica di umanità dell’agente). Ha ragione Janet, la ragazza accarezzata nella foto: «La usano per mostrare la faccia bella di questa storia, ma la verità è che la polizia ci ha spruzzato l’acqua addosso. Siamo stati buttati via come una scarpa vecchia».

 

(La requisitoria del processo Diaz è raccontata, “tradotta” dal linguaggio giuridico, nel libro “Scuola Diaz, vergogna di stato”, di Antonini, Barilli, Rossi. Alegre edizioni 2009)

 

 

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