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HomecultureUn funerale come si deve. Un racconto per Popoff

Un funerale come si deve. Un racconto per Popoff

“… E quando muoio io…”, un racconto di Giuseppe Ciarallo tratto da “Le spade non bastano mai” (paginauno)

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La flebile luce che filtrava da una persiana quasi completamente chiusa dava alla camera, imbiancata di fresco, come un alone di austerità.

Un letto in ottone, impeccabilmente lucido, sormontato da un alto materasso di fronde di granturco, un incolore scendiletto, due comodini di legno antico posti ai  lati e una riproduzione del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo alla parete, costituivano tutto l’arredamento.

Per l’occasione era stato portato nella stanza uno sgabello sul quale un prete, totalmente assorto nelle sue litanie, era chino col suo viso a sfiorare quello del moribondo.

“… e quando muoio io… non voglio preti…”

“… ed io ti assolvo dai tuoi peccati…”

“… non voglio preti e frati… né paternostri…”

“… nel nome del Padre…”

“… ma voglio la bandiera…”

“… del Figlio…”

“… dei comunisti…”

“… e dello Spirito Santo.”

Un amen che rimbombò come una fucilata fu proferito dalle due anziane signore entrate nella camera dove stava spirando il loro caro fratello, proprio nel momento in cui il sacerdote aveva concluso la preghiera nel rito dell’estrema unzione.

“Pazzo! Pentiti finché sei in tempo” gridarono quasi all’unisono le due vecchine.

L’uomo, fissando un punto nel vuoto con gli occhi ammantati da un velo di lacrime, continuava imperterrito con quel po’ di voce che gli era rimasta: “… e quando muoio io… non voglio preti… non voglio preti e frati…”

“Zitto, canaglia! Fino all’ultimo! Dio abbia pietà di te e di tutti noi! Padre nostro che sei nei cieli…”

“… né paternostri… ma voglio… la bandiera… dei comunisti…”

Le due donne fissarono preoccupate il prete, il quale con fare sconsolato, sguardo impenetrabile, dapprima si aggiustò la stola, poi si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi con l’indice e il pollice della mano destra, infine mormorò: “Io, quello che dovevo fare, l’ho fatto.”

La notizia si sparse per il paese con la velocità di un lampo e giunse alla Casina, luogo di ritrovo dei benestanti del paese, con le gambe magre di un ragazzino incaricato di diffondere il triste annuncio.

“‘U sapète chi è mmuorte? Don Giggino De Santis, ‘u fije d’u sineche viecchie!”

Passato l’attimo di finto stupore sul volto dei presenti comparve un più credibile sorriso di sollievo.

Un rompicoglioni in meno in paese, un rinnegato in meno sulla faccia della terra.

Sì perché don Giggino De Santis, figlio del sindaco vecchio – dove il termine vecchio non stava tanto a indicare l’età della persona quanto il fatto di non essere più in carica, lo stato di “ex” – aveva da tempo tradito le sue origini, i suoi pari, la gente della sua casta. Rampollo di una delle famiglie più ricche del circondario, i De Santis possedevano praticamente tutti i poderi che dal paese portavano al fiume e gli uliveti sul fianco del monte che dominava il paese, aveva sin da piccolo dimostrato fastidio per la sua condizione, sempre preferendo accompagnarsi ai figli dei contadini anziché ai coetanei del suo stesso ceto. E da loro aveva imparato a comportarsi in quel modo “barbaro e sconsiderato” che tanto dispiacere aveva cagionato alla di lui povera mamma, donna pia e timorata di Dio.

Parlava più in dialetto che in italiano, cosa disdicevole per uno della sua classe, fischiava come un pecoraio, andava a caccia di lucertole e ramarri, si arrampicava sugli alberi a rubare le ciliegie – lui che avrebbe potuto ricoprire il paese con la frutta delle sue piante – e non c’era sera che non tornasse a casa con le ginocchia sbucciate, e graffi e lividi sulla fronte e sulle braccia. Appena un po’ più grandicello poi, aveva cominciato a frequentare la bottega di mastro Silvano, un modesto falegname che stentava a campare, lui e la sua infelice famiglia, osteggiato com’era dall’intero paese il cui destino era legato, nel bene e nel male, a quella ristretta cerchia di potenti i quali decidevano, a loro insindacabile giudizio, della fortuna o della disgrazia di ognuno.

A mastro Silvano era toccato il pollice verso; d’altronde, a detta di tutti, quel cocciuto d’un falegname se l’era proprio andata a cercare. Com’era venuto in mente a lui, artigiano, mezzo cafone semianalfabeta, di dichiararsi pubblicamente ateo e comunista in un piccolo centro del sud Italia, fascista durante il fascismo, democristiano nel dopoguerra e comunque totalmente impregnato di quella cultura cattolica totalizzante che disponeva e controllava l’intera vita della comunità?

E infatti era stata una pessima idea. Mastro Silvano non batteva chiodo, che per un falegname non è proprio una gran bella prospettiva. Come per un tacito ordine, tutti i lavori di ebanisteria venivano commissionati agli altri due artigiani del paese, molto meno bravi di lui ma evidentemente in regola con i sacramenti. Mastro Silvano viveva di quei quattro soldi che sapevano più di elemosina che d’altro, pagati dai pochi amici e compagni, disperati quanto e a volte più di lui, per piccoli lavori di riparazione.

Don Giggino, seduto su uno sgabello basso, i piedi immersi nei trucioli ascoltava mastro Silvano raccontare della guerra, delle trincee e di Caporetto – che lì seppe essere diventata sinonimo di disastrosa sconfitta – e quelle storie di piccoli eroismi, grandi codardie, paura e disperazione si animavano nello stanzone di pietra, buio, nel quale una lama di sole faceva violentemente il suo ingresso, a ferire gli occhi dei presenti, attraverso una porticina di legno vecchio e scrostato.

A destra della porta d’ingresso troneggiava un’enorme bandiera rossa, sulla parete opposta una falce e un martello, veri, incrociati e inchiodati al muro. Vecchi manifesti cascanti sulle altre pareti e una quindicina di sedie sparse disordinatamente per la stanza.

Uno a uno arrivarono, la testa bassa e un sincero dolore nel cuore, i veri amici di don Giggino.

Nessuno aveva voglia di parlare; non era, quella, la solita assemblea per discutere dei prezzi insostenibili, delle condizioni di vita disumane, dell’ennesimo incidente sul lavoro, dove ognuno sfogava il bisogno e la voglia di urlare la propria rabbia, la ribellione e l’odio nei confronti di chi spadroneggiava impunemente e senza remore. Lì, ora, c’era un vuoto incolmabile, c’era un’assenza dall’amaro sapore di sconfitta, di sogno infranto, perché la sola presenza di don Giggino al loro fianco in più di un’occasione era stata un argine alla protervia dei signorotti locali che credevano di poter riportare le lancette della storia al secolo precedente.

Dopo alcuni minuti di greve silenzio, un silenzio che sovrastava gli astanti come una cappa di fumo pesante, prese la parola Primiano, che di don Giggino era stato il primo e più affezionato compagno di giochi fin dalla più tenera età. Lacrime che non riusciva a frenare scendevano senza ritegno lungo le guance scavate e andavano a disperdersi tra i peli bianchi di una barba non fatta da qualche giorno.

“Voi lo sapete quanto bene volevo io a Giggino, anzi a don Giggino, perché così io l’ho chiamato per tutta la vita, e lo chiamavo così apposta per farlo incazzare, perché lui quella parola , “don”, la detestava in quanto diceva che era un appellativo da preti, mafiosi o sfruttatori. E io lo sfottevo ricordandogli che lui, comunque, era e restava sempre un signore. Ma il mio era uno sfottò benevolo, perché io lo sapevo che Giggino era più pezzente di noi, era più cafone di noi tutti messi insieme ed era pure più compagno e comunista del più rosso di noi. Perché lui l’aveva scelto, di essere pezzente e cafone, lui l’aveva deciso di essere comunista, e per questo aveva dovuto lottare contro la diffidenza dei poveracci e l’ostilità della famiglia e di quelli della sua casta. Noi invece, al pari dei principi, siamo pezzenti e cafoni per diritto di nascita, per eredità, e nella vita abbiamo davanti due sole strade: abbassare la testa e accontentarci delle briciole che ci vengono centellinate – non essendo noi padroni nemmeno delle nostre braccia – baciando pile, culi e mani di chi ci catechizza e ci sfrutta, oppure scegliere una strada ancora più impervia, come fece la buonanima di mastro Silvano, e diventare comunisti, ribellarci e lottare tutta la vita per riuscire a strappare con le unghie e coi denti persino il più elementare diritto. Vi ricordate cosa ci diceva Giggino citando Gramsci. “…e chi cazzo è ‘stu Gramsci?” dicevamo noi con gli occhi scacchiati. “Istruiamoci perché avremo bisogno di tutto il nostro sapere”. E noi ridevamo perché parole come quelle non facevano, non avevano mai fatto parte del nostro patrimonio. Un libro? E che ci faccio? Io devo saper come e quando cogliere le olive, come e quando seminare, sarchiare, falciare, raccogliere il grano e fare le fascine, devo sapere vendemmiare e pigiare l’uva, ammazzare il maiale e farci la salsiccia. E intanto che noi ci ammazzavamo di fatica, e crescevamo nella nostra cultura, perché anche quella del lavoro è cultura, qualcuno firmava con delle anonime “x” su un foglio di carta, per conto nostro, per noi che nemmeno sapevamo come impugnarla una penna.

Mi sembra ieri il giorno che Giggino ci ha convocati qua come se ci fosse una riunione improrogabile e ci ha consegnato una penna e un foglio di carta a testa. “Ora vi dovete imparare a scrivere. Tutti quanti!” aveva detto. La maggior parte di noi lo aveva guardato con aria contrariata. E solo il suo carisma era riuscito ad avere la meglio sulle nostre perplessità. Con un pezzo di carbone, lettera dopo lettera aveva scarabocchiato la parete alle mie spalle, questo muro che abbiamo ritinteggiato mille volte di bianco tanto che, se un archeologo tra mille anni dovesse imbattersi nelle mura di questa stanza, si troverebbe di fronte a un mistero irrisolvibile. Ma ha tenuto duro, il nostro compagno. Quanti di noi, giovani e vecchi, maschi e femmine, oggi, non sanno ancora leggere scrivere e fare di conto? Nessuno! E come fanno i signori, se non con la prepotenza, a imbrogliare uno che sa leggere, scrivere e contare? Io, con l’aiuto di Giggino mi sono pure diplomato e Cesarino ha preso la licenza media, e pure tu Pardo, e tu pure, Ciccillo! Come facevano i signori a non odiare uno di loro che invece di comportarsi naturalmente, vivendo nell’agio che Dio, la patria e la famiglia gli avevano garantito, insegnava a noi pezzenti a non farci sfruttare? Vi ricordate quanto olio di ricino gli hanno fatto ingoiare quei porci bastardi? E lui, passati i dolori, ridendo ci diceva: “Ci voleva proprio! Ultimamente soffrivo un po’ di stitichezza!”“

Risata generale.

“Quanti libri ci ha dato da leggere, quante cose ci ha insegnato e fatto scoprire? Vi ricordate quando ci ha raccontato di quel luogo, che ancora non esiste ma che dobbiamo cercare di costruire con tutte le nostre forze, dove non ci sono signori e pezzenti, dove la terra è di chi la lavora, dove hai diritto a mangiare solo se ti sei spezzato la schiena sotto il sole cocente, dove i preti devono crescerselo e sgozzarselo il maiale se vogliono assaggiare la salsiccia, dove i termini “padrone” e “sotto” si potranno usare solo durante la passatella, giocando a carte e bevendo birra fresca?”

Un applauso fragoroso era scoppiato nella stanza colma di gente commossa e affranta. Primiano continuò: “Cari compagni, io ho paura che quelli della Casina, che Giggino non l’hanno mai potuto avere da vivo, se lo vogliano riprendere da morto. Hanno sempre fatto finta di sopportare le bizze di quello che loro consideravano il più bizzarro dei loro figli, fingendo di ignorare che Giggino non era più sangue del loro sangue ma fratello di noi poveracci, e il sangue che scorreva nelle sue vene era rosso e non blu, rosso come il colore della nostra bandiera.

Ho saputo per certo che le sorelle faranno un funerale in chiesa, nonostante Giggino – questo l’ho saputo da mia moglie che ha parlato con Giovina, la serva di casa De Santis – mentre moriva e il prete lo ungeva, continuava a cantare, con un filo di voce  …E quando muoio io…

Altra risata.

“E allora? Possiamo lasciare Giggino da solo, in mano a quelli che lo hanno detestato per tutta la vita, proprio nel momento dell’addio? Sentite, ho già contattato i compagni di tutti i paesi del circondario, che Giggino l’hanno conosciuto e apprezzato e, se siamo tutti d’accordo, io propongo…”

******

“Donna Filomena… condoglianze. Donna Italia… condoglianze.”

C’erano proprio tutti nell’ampio salone della casa padronale della famiglia De Santis. Tutti a rendere omaggio alla salma del loro caro e sfortunato amico. Il sindaco con tanto di fascia tricolore, l’intero consiglio comunale, i vigili, il comandante della locale stazione dei Carabinieri, il farmacista e tutti i proprietari terrieri del paese. Il prete, ovviamente.

Uno a uno erano passati in rassegna davanti alla salma composta nello spoglio stanzino, ognuno con sentimenti opposti dipinti sul volto e ben nascosti tra le pieghe del cervello. Dolore e contrizione negli occhi, piacere e senso di liberazione, e in qualcuno in particolare, di vendetta nel cuore.

Il parroco volle dire due parole su quello che egli, anticipando il sermone che avrebbe pomposamente declamato il giorno successivo nel corso della funzione, definiva uno dei figli più sensibili del suo gregge, che aveva cercato di mettere in pratica, seppur con mezzi erronei e spesso creando confusione nelle anime dei più semplici, gli insegnamenti di Cristo sull’amore per i più umili, per quegli ultimi che, questo lo sottintese, ultimi dovevano rimanere sulla terra per poter conquistare il primato nell’aldilà. Ricordava la bontà d’animo di don Giggino che mai, proprio per questa sua caratteristica, si era allontanato da Santa Madre Chiesa, per poi mentire, sostenuto in questo dalle sorelle del morto ma ignorando che la serva aveva già raccontato come si erano realmente svolti gli ultimi istanti di vita del defunto, inventandosi che prima dell’attimo del trapasso “il caro fratello” aveva espresso la sua chiara volontà di morire col conforto dei sacramenti.

Brusio di gaudio fra i presenti.

Anche il sindaco volle ricordare il contributo culturale e umano apportato alla vita del paese dal loro sfortunato concittadino, e un paio di coetanei del morto avevano raccontato, inventando tutto di sana pianta, ricordi di giochi e scampagnate ripescati dalla loro memoria, dove Giggino non poteva esserci in quanto da sempre poco incline alla frequentazione di quei bambini così poco interessanti, sempre azzimati nei loro vestitini da marinaretto ultima moda cittadina, sempre così pulitini e senza graffi, coi loro riccioloni sempre perfettamente pettinati, in contrasto con le ghigne furbette e già svezzate dei figli dei contadini, la pelle cotta dal sole, le guance rosso fuoco, le unghie sporche, i vestiti rattoppati, scalzi e laceri ma vivi, vivi e liberi proprio come sognava di essere lui.

Quel mattino il cielo era la quintessenza della limpidezza. Le rondini, in numero esagerato, sembravano guizzare nell’aria come frotte di pesci tra le onde. Portati dalla brezza, nel pesante silenzio che strideva con la luce accecante del sole, solo i tocchi della campana che suonava a morto e l’acuto e stridulo squittire degli uccelli.

Per il corteo funebre, che stava percorrendo la via principale in direzione della cattedrale, erano stati scomodati tutti i santi del paese. Apriva la processione il mezzobusto del patrono, via via seguivano, portati a spalla ciascuno da quattro fedeli, una Madonna con bambino e poi i santi, Stefano, Luigi, Rocco col suo cagnolino, Antonio e per ultimo, come sempre e non si sa se per puro caso, Francesco il quale, non sia dimenticato, aveva rinunciato alle ricchezze e agli agi per spogliarsi di tutto e vivere la vita dei dimenticati dagli uomini e da Dio.

Dietro i santi, una coppia di cavalli trascinavano stancamente un carro scoperto con la bara ancora aperta sul pianale. Al seguito del carro un chierichetto che reggeva, compunto, un crocifisso fissato alla cima di un’asta, appena dietro di lui il prete officiante in mezzo ad altri due chierichetti e a chiudere, le sorelle del morto, affrante nei loro neri vestiti, le autorità cittadine, i notabili e in coda una ventina di contadini col vestito buono e il cappello rispettosamente tenuto in mano.

Poco dopo il tetro edificio del carcere, superato l’albergo Vittoria, un giovanotto si affacciò a un balcone che dava sulla strada invasa dalla processione. Guardò dall’alto il viso di don Giggino, i suoi lineamenti contratti dalla rigidità della morte e pensò che non dovesse sentirsi molto a suo agio in mezzo a tutta quella marmaglia.

Il ragazzo sfilò da una tasca dei pantaloni un fazzolettone rosso, se lo legò lentamente intorno al collo poi si chinò a raccogliere da terra – la gente in strada lo vide scomparire per un attimo – una tromba; la portò alle labbra e con un suono sottile e delicato cominciò a intonare le note de L’internazionale.

Ci fu sgomento tra la folla che interpretò quel gesto come un atto di pura blasfemia. Il sindaco girò lo sguardo verso il comandante dei Carabinieri il quale, colto di sorpresa, non sapeva che pesci pigliare. Da alcuni balconi, delle donne cominciarono a gettare sulla salma petali di fiori, rose, garofani e papaveri, tutti rigorosamente rossi.

Lo stupore e lo smarrimento dei signorotti crebbe ancor più quando dalle viuzze laterali si affacciarono, muti, i compagni di Giggino sventolando le loro bandiere. Ed erano tanti, davvero tanti perché in un frenetico passa parola erano giunti da tutto il circondario per quel singolare, estremo saluto.

Al passaggio della salma del loro compagno tutti alzarono i pugni al cielo, e lasciata una distanza di una ventina di metri tra loro e il corteo ufficiale, si accodarono e accompagnarono don Giggino per non lasciarlo solo nel suo ultimo viaggio.

Si dice… si dice che qualcuno, guardando la scena dall’alto di un balcone, vide un raggio di sole illuminare il volto di don Giggino proprio nell’istante in cui erano risuonate le note dell’Internazionale, e in quel momento la rigidità delle mascelle sciogliersi trasformandosi in un sorriso soddisfatto, come a dire: Ora, se volete, potete pure portarmi in chiesa… Si dice

 

 

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Giuseppe Ciarallo

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L’autore narra con ironia frammenti di vite nelle quali il cinismo, la sopraffazione, l’inconsapevolezza, l’incapacità di trovare punti di incontro per far crescere una relazione, mostrano la difficoltà che l’individuo moderno ha nel dare un senso concreto e razionale alle proprie azioni.

 Giuseppe Ciarallo è nato nel 1958 a Milano. Ha pubblicato due raccolte di short stories, Racconti per sax tenore (1994), Amori a serramanico (1999), l’opera di satira politica in endecasillabi Danteska(Paginauno, 2011), e suoi racconti compaiono nelle collettanee Sorci verdi(Alegre, 2011), Lavoro vivo (Alegre, 2012) e Festa d’aprile (Tempesta Editore, 2015). Collabora a riviste di letteratura, satira, politica.

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