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Gig economy vista dall’Inps, com’è grigia “l’economia dei lavoretti”

600 mila “Gig” lavoratori, le aziende dicono di svolgere servizi informatici ma consegnano merci. Ed evadono l’Inps

Per 137 mila persone la nuova economia è il primo lavoro ma il 44 per cento delle aziende non ha posizioni aperte nella previdenza italiana.

 

Amazon, Airbnb, Deliveroo, Blablacar e tutte le altre. 22 società non hanno lavoratori secondo i dati Inps, 17 aziende hanno solo dipendenti privati per 662 rapporti di lavoro. Infine 11 aziende hanno sia collaboratori che dipendenti, con i primi a farla da padrone con 1841 rapporti di lavoro rispetti ai 288 contratti subordinati. L’Inps ne ha elencate 50 di società e le ha suddivise in tre categorie: lavoro on demand attraverso app, crowdwork e asset rental. Sono le aziende della gig economy, che entrano per la prima volta nel rapporto annuale dell’Istituto nazionale di previdenza socialepresentato oggi nella Sala della Regina di Palazzo Montecitorio. 

Ci sono problemi di definizione perché non esiste una gestione previdenziale dedicata ai lavoratori della Gig economy – scrive l’istituto guidato da Tito Boeri – come non esiste una forma di pagamento che circoscriva il perimetro della “economia dei lavoretti”. Secondo lo studio, il 44 per cento delle società non ha posizione negli archivi Inps per il 2017.

Si tratta di un dato atteso perché molte piattaforme operano a livello internazionale, senza lavoratori locali, oppure con una larga fetta di lavoratori impiegata a prestazione autonoma occasionale, che sotto i 5000 euro non prevede iscrizione alla gestione separata dell’Inps. Dall’indagine campionaria risulta invece la presenza di alcune aziende con numerosi dipendenti. Un dato in controtendenza che il rapporto annuale presentato a Montecitorio tenta di spiegare. Può trattarsi di aziende inserite nella gig economy che hanno deciso di assumere, oppure di aziende erroneamente inquadrate nel settore. Questo mostra una difficoltà nel definire il fenomeno fra gli addetti ai lavori, fatto di zone “di confine” come il lavoro domestico che viene richiesto tramite piattaforma. Un dato interessante è che sulle 28 aziende con lavoratori che risultano all’Inps, ben 16 operano nella produzione di software e servizi informatici. Significa che se una società consegna cibo a domicilio attraverso piattaforma si registra come società d’informatica.

La fotografia dei lavoratori racconta che i collaboratori sono quasi tutti maschi, l’86 per cento, mentre fra i dipendenti il 56 per cento è donna. Tra i collaboratori solo poco più della metà ha esperienze precedenti di lavoro mentre tra i lavoratori dipendenti il dato sale all’86 per cento. L’indagine condotta da Inps, che fa seguito a una precedente sulla gig economy in Italia condotta da Fondazione Debenedetti, è stata realizzata attraverso questionari e sondaggi online. 15.011 i rispondenti poi limati 14.857 dopo pulizia dei numeri per riportare i dati di riferimento alla popolazione in età lavorativa fra i 18 e 64 anni.
Su questa fascia lo 0,47 per cento ha indicato il settore “gig” come unico lavoro nella settimana di riferimento. Sono 175.555 lavoratori, cifra che se viene tarata in base al fatto che non tutta la popolazione in età lavorativa è fatta di internauti e frequentatori abituali della rete, quindi non intercettabili dalla survey di Inps, porta la stima dei lavoratori solo “gig” a 137.284, lo 0,37 per cento del totale. “Un’incidenza già significativa – scrive l’Inps – rispetto al fatto che in Italia le tecnologie digitali seppur diffuse non sono sviluppate come nei Paesi anglosassoni”. Si aggiunga che un altro 1,18 per cento della popolazione attiva lo fa come secondo lavoro, lo 0,38 per cento lo usa come “ammortizzatore” in una fase di inattività o disoccupazione. La somma di tutte le voci porta i lavoratori gig a 589.040. (Francesco Floris)

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