Poco dopo il suo insediamento come presidente nel gennaio 2017, Trump fece una telefonata con il primo ministro australiano Malcolm Turnbull. La trascrizione della conversazione, trapelata ad agosto, ha rivelato che il nuovo presidente americano ammirava la sua controparte australiana perché Turnbull era «peggiore di me» sui richiedenti asilo. Turnbull aveva dichiarato con orgoglio: «Se provi a venire in Australia in barca, anche se pensiamo che tu sia la persona migliore del mondo, anche se sei un genio da premio Nobel, non ti lasceremo entrare». Nella loro telefonata, il primo ministro pregò il leader degli Stati Uniti di aderire a un accordo firmato da Turnbull e dall’ex presidente Barack Obama l’anno prima, in cui gli Stati Uniti concordavano di prendere in carico a 1.250 profughi imprigionati dall’Australia per anni sulle isole Manus in Papua Nuova Guinea (PNG) e Nauru nel Pacifico.

In cambio, l’Australia avrebbe preso dei rifugiati dall’America Centrale. Trump non capiva perché l’Australia non poteva accogliere i rifugiati di PNG e Nauru. Turnbull rispose: «Non è perché [i rifugiati]sono cattivi. È perché per fermare i contrabbandieri dovevamo privarli del prodotto». A Trump piaceva quello che stava sentendo. «Questa sì che è una buona idea», disse. «Dovremmo farlo anche noi». Turnbull quindi spiegò con orgoglio il complesso sistema istituito dall’Australia molti anni prima: i rifugiati sono imprigionati in centri di detenzione privati, in località remote del continente australiano e su isole del Pacifico. Trump non è l’unico a esserne rimasto impressionato; molti leader occidentali non solo hanno espresso ammirazione per le politiche draconiane sui rifugiati in Australia, ma hanno anche iniziato a metterle in atto nelle loro stesse nazioni, per far fronte alla recente ondata di persone in fuga dall’Africa e dal Medio Oriente.

La diffusione della xenofobia nei confronti dei rifugiati è stata perfezionata dai politici australiani più di vent’anni fa. Parallelamente a furbi messaggi subliminali contro gruppi etnici con scarso potere sociale, i rifugiati sono stati accusati di essere sporchi, sospettosi, pigri, assetati di benessere e potenziali terroristi – e sono stati accusati di rifiutare l’assimilazione, nonostante la realtà multiculturale di grande successo del paese.

L’Australia non è stata timida nell’offrire consigli alle nazioni europee alle prese con l’afflusso di rifugiati. L’ex primo ministro Tony Abbott nel 2016 ha avvertito i suoi omologhi europei che stavano affrontando una “invasione pacifica” e rischiavano di “perdere il controllo” della loro sovranità a meno che non adottassero delle politiche in stile australiano.

«L’efficace protezione delle frontiere non è perché siamo schizzinosi», ha affermato dopo aver rimarcato di voler respingere le barche dei rifugiati in mare e riportare le persone nel loro paese di origine, «ma è assolutamente necessaria per salvare vite umane e preservare le nazioni». Abbott ha rifiutato tutte le mie richieste di chiarimenti in merito.

Negli ultimi anni, l’Australia ha accettato circa 190.000 persone all’anno col suo programma di migrazione. Quest’anno, tuttavia, l’assunzione di migranti sarà la più bassa in sette anni. C’è una contraddizione intrinseca nella politica migratoria australiana: il paese accetta tranquillamente molti rifugiati che arrivano in aereo, ma tratta con disprezzo e maltrattamenti coloro che arrivano in barca. Tra il 1976 e il 2015, oltre 69.600 persone in cerca di asilo, provenienti principalmente dall’Afghanistan, dal Sud-Est asiatico e dal Medio Oriente, sono arrivate in Australia in barca.

A differenza di alcune nazioni europee come Gran Bretagna, Spagna e Italia, dove circa il 65% delle persone si oppone all’immigrazione, gli autorevoli sondaggi della Scanlon Foundation australiana hanno rilevato che la maggioranza degli australiani sostiene gli arrivi: l’80% degli intervistati ha rifiutato di selezionare gli immigrati per razza e il 74% si è opposto all’idea di selezionare gli immigrati per religione. Tuttavia un numero crescente di persone esprime opposizione o sospetto nei confronti dell’Islam, mentre nel dibattito mainstream australiano si fa strada la richiesta di un grande taglio all’immigrazione. Gli ultimi sondaggi del Lowy Institute del 2018 hanno rilevato che la maggior parte degli australiani ora crede che i livelli di immigrazione siano troppo alti. Molti di coloro che sostengono questa tesi affermano che le cure per gli immigrati sono troppo costose e che si dovrebbe dare priorità al miglioramento delle infrastrutture e dell’ambiente. Ma è possibile, naturalmente, che un paese così ricco faccia entrambe le cose.

L’internazionalizzazione della linea del governo australiana è sfortunatamente coincisa con l’ondata populista della destra in Europa. L’Europa ha recentemente avuto a che fare con milioni di richiedenti asilo che arrivano sulle sue coste. In molti vogliono fermarli e ricacciarli indietro. È un’opinione condivisa da alcuni dei partiti politici più estremisti del continente; il nuovo governo di destra italiano sta già negando l’accesso alle barche dei migranti. Alcuni politici danesi di estrema destra hanno provato, ma senza successo, a visitare Nauru nel 2016 per vedere come vengono trattati i rifugiati. Gli atteggiamenti punitivi, da casi marginali stanno diventando la norma e quindi non sorprende che vogliano vedere come si fa in Australia. Se un paese democratico come l’Australia può rinchiudere dei rifugiati per anni, senza ricevere sanzioni tangibili a livello internazionale – a parte le sempre più aspre relazioni delle Nazioni Unite sul suo programma di migrazione – perché non possono farlo gli stati europei, con molte più persone che attraversano i loro confini?

Ascolto regolarmente questo tipo di argomentazioni parlando con i fan europei dell’Australia. Jens Baur, presidente del Partito democratico nazionale neonazista della regione tedesca della Sassonia, ha dichiarato a “The Nation” di elogiare il “successo” australiano contro i rifugiati perché era un efficace “deterrente”. Per Baur, l’Europa usava «navi delle marine europee come dei taxi che portano i rifugiati dalla costa nordafricana in Europa». Voleva che l’Europa seguisse gli esempi dell’Australia e dell’Ungheria di Orbán.

Per Kenneth Kristensen Berth, il politico europeo più influente dell’ultranazionalista Danish People’s Party, il principale partito di opposizione della Danimarca, la crescita in popolarità del suo partito ha coinciso con una sempre maggior riferimento alla linea dura australiana. Berth si diceva affascinato dall’”efficienza” del sistema australiano e non aveva nessuna compassione per i rifugiati intrappolati nelle isole del Pacifico.

«È una loro scelta», mi ha detto Berth. «Sono stati avvertiti dai funzionari australiani che se solo avessero provato a raggiungere l’Australia illegalmente non avrebbero mai potuto considerarla la loro casa. Fino a quando non vengono maltrattati in questi centri di detenzione, non trovo alcuna mancanza da parte australiana». (In realtà, innumerevoli rifugiati sono stati aggrediti).

Nigel Farage, ex leader di estrema destra dell’UKIP, tra i principali architetti del Brexit, ha elogiato un suo collega parlamentare che ha definito “innovativo” l’approccio australiano ai rifugiati e ha voluto che l’Unione europea lo seguisse. Farage ha ignorato le mie ripetute richieste di chiarimenti.

La base ideologica del sostegno all’estrema destra Europea dovrebbe essere intesa come un mix politicamente esperto di razzismo, una sorta di socialismo nazionalista e isolazionismo. Sasha Polakow-Suransky, autrice del libro di recente uscita Go Back to Where You Came From: The Backlash Against Immigration and the Fate of Western Democracy, spiega che molti leader di estrema destra sono «difensori di uno stato-balia». Mi ha detto «Non sono demolitori neoliberisti dello stato sociale ma difensori dei benefici sociali solo per i nativi. È un passo populista che è stato estremamente efficace per attrarre elettori ex-comunisti e socialdemocratici nelle loro fila. Questi politici stanno cercando modi per proteggere le loro reti di sicurezza sociale e evitare di condividerle con i nuovi arrivati​». Polakow-Suransky ritiene che, in questa visione del mondo, i benefici sociali generosi dell’Australia per i suoi cittadini dovrebbero essere copiati in Europa, ma non per «ciò che si dà alle mani avide e immeritevoli dei nuovi arrivi che stanno solo cercando di scroccare dal loro stato sociale».

I metodi australiani sono spietatamente efficaci. Ondate di rifugiati hanno tentato di arrivare in barca dai primi anni ’90 e in migliaia hanno avuto traumi fisici e psicologici dopo essere stati rinchiusi. Uno è stato persino ucciso dalle guardie locali durante la detenzione (una successiva inchiesta del Senato ha rilevato che le autorità australiane non sono riuscite a proteggerlo adeguatamente). Spesso vengono rifiutate le cure mediche necessarie e, a volte, vengono rimpatriati in paesi pericolosi come l’Afghanistan e lo Sri Lanka. Un elemento fondamentale del diritto internazionale, che l’Australia infrange abitualmente, è il concetto di “non-refoulement”, il principio secondo cui i rifugiati non dovrebbero essere rimpatriati in un posto dove le loro vite e dignità sono minacciate.

La politica australiana per i rifugiati è stata condannata nei rapporti delle Nazioni Unite, di Human Rights Watch e di Amnesty International, nonché da testimonianze oculari di attivisti e giornalisti. Ho visitato personalmente molte delle strutture più estreme – come Christmas Island, nell’Oceano Indiano – e ho ascoltato storie terribili da parte di richiedenti asilo e guardie. I governi australiani che si susseguono pagano decine di milioni di dollari in risarcimenti a molti di questi rifugiati, eppure la politica continua, con un forte sostegno pubblico. In un’epoca di demonizzazione dei rifugiati, l’Australia era un passo avanti. Queste politiche sono state sviluppate già prima degli attacchi terroristici dell’11 settembre, ma hanno guadagnato legittimità dopo quella infame giornata. Dopo quel trauma, è stato più facile marchiare chi arriva via mare come potenziale terrorista ed estremista islamico; da allora c’è stato un sostegno politico bipartisan quasi unanime a tale approccio.

Le campagne anti-rifugiati australiane sono ovviamente rivolte a una popolazione bianca spaventata, ma il fascino va ben oltre. Secondo il censimento del 2016, quasi la metà dei cittadini australiani hanno genitori migranti di prima o seconda generazione e ci sono molti ex migranti conservatori che mostrano poca simpatia per gli sbarchi più recenti. Come ha scritto di recente il giornalista James Button sulla rivista australiana “The Monthly”, «la maggior parte degli australiani, compresi i migranti, accetta il brutale affare: devi essere invitato, c’è una strada giusta e una strada sbagliata». La “via sbagliata” apparentemente non merita supporto.

Non aiuta che in Australia siano ancora pochi i giornalisti mainstream non bianchi, il che significa che i punti di vista del crescente numero di residenti “non-anglo” non ricevono l’attenzione che meritano.

Gli attivisti australiani che si oppongono a queste politiche hanno un’esperienza pluridecennale, le loro campagne includono tentativi di deferire l’Australia alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, per gli abusi subiti dai profughi detenuti. L’avvocato per i diritti umani Madeline Gleeson, docente all’Università del New South Wales, alla Law School di Sydney, mi ha detto che c’erano «basi solide per sostenere che la condotta degli ufficiali australiani poteva implicare una responsabilità penali individuali». Ma l’accusa in una corte internazionale deve affrontare grossi ostacoli: ad esempio un tribunale di questo tipo potrebbe non essere mai convinto ad ascoltare casi di abusi commessi da un paese occidentale e democratico. Ora è impossibile negare che la politica australiana sui rifugiati stia ispirando alcune delle direttive sull’asilo più draconiane in UE e oltre. In che modo una nazione con una reputazione internazionale così positiva è diventata un leader globale nel nuocere ai richiedenti asilo?

Per gran parte della sua esistenza come nazione coloniale, l’Australia ha avuto una politica ufficiale su basi etniche, preferendo i migranti con un passato britannico. Il cambiamento ebbe inizio negli anni ’50 e verso la fine degli anni ’70 l’Australia accoglieva decine di migliaia di rifugiati in fuga dal caos del sud-est asiatico dopo la guerra in Vietnam. Ma all’inizio del 1990, il governo laburista introdusse la detenzione obbligatoria per i richiedenti asilo, in maggioranza provenienti dalla Cambogia (sopravvissuti al regime dei Khmer rossi, i numeri erano modesti). Il primo ministro all’epoca, Paul Keating, ha recentemente dichiarato: «A essere onesti, in quell’epoca i diritti umani non erano un grosso tema per il mio gabinetto». Si temeva infatti una valanga di richieste di asilo dalle zone di conflitto globale e dai paesi problematici della regione, compresa la Cina. È stato l’inizio di un processo che è diventato sempre più rigido.

La dimensione della rete detentiva australiana è difficile da capire. Con una popolazione di circa 25 milioni di abitanti e una superficie non molto più piccola di quella degli Stati Uniti, l’Australia ha spazio per molti altri rifugiati e ha bisogno di nuovi arrivi qualificati. Ma il paese ha a lungo temuto il diverso (questo sentimento può essere parzialmente radicato nel fatto che l’Australia, fondata come colonia britannica nel 1788, commise un genocidio contro i suoi primi abitanti, gli aborigeni). Mentre una volta erano gli arrivi cinesi e vietnamiti a essere visti con sospetto, oggi molti australiani sono convinti che i rifugiati neri e musulmani meritino il trattamento più duro che si possa immaginare.

Il costo del mantenimento dei campi di detenzione in Australia è astronomico. Gli ultimi dati, pubblicati all’inizio del 2018, mostrano che nell’anno fiscale 2016-17 l’Australia ha speso 4,06 miliardi di dollari nella “protezione delle frontiere”. Questo includeva la gestione offshore per oltre un miliardo. Il costo annuale per ogni rifugiato ospitato in detenzione è stato di 346.178 dollari.

L’Australia ha speso 10 milioni di dollari nell’anno fiscale 2015-16 (e altri milioni in altri progetti simili) in pubblicità all’estero indirizzata a cittadini in Afghanistan, Iran, Iraq, Pakistan, India, Sri Lanka, Bangladesh, Tailandia, Vietnam, Malesia e Indonesia. Il messaggio era chiaro: non venire in Australia in barca, la via è completamente bloccata. La crescente popolazione mondiale di rifugiati – la più numerosa dopo la seconda guerra mondiale, con oltre 68 milioni – non è servita ad attenuare la determinazione dell’Australia (a parte un piccolo sforzo per accogliere 12.000 rifugiati dalla Siria e dall’Iraq devastati dalla guerra). D’altra parte, quando all’inizio di quest’anno gli agricoltori sudafricani bianchi hanno subito minacce, il governo australiano ha affermato che «meritano un trattamento speciale» e potrebbero essere accolti con visti speciali e con procedure rapide.

Nel 2013, il Parlamento australiano ha approvato una legge che esclude la terraferma del paese dalla sua zona di migrazione, consentendo al governo di inviare tutti i richiedenti asilo in arrivo in PNG e Nauru. Il motivo dell’esternalizzazione dei rifugiati era che il governo australiano poteva affermare che qualsiasi abuso o problema era responsabilità dei paesi in cui si verificavano, gli stati-clienti come PNG e Nauru. È stata una bugia sfacciata, ma ha permesso alle multinazionali che gestiscono tali strutture di fare fortuna (ho tentato senza successo di ottenere una risposta dalla società che gestisce attualmente la struttura di Manus Island, Paladin Solutions PNG). L’offshore in questi paesi poveri e corrotti costringe le persone imprigionate in un buco nero legale, in località simili a Guantanamo o persino nei cosiddetti “black-sites” dove ai giornalisti viene raramente consentito l’accesso.

Operation Sovereign Borders [Operazione confini sovrani] era il nome dato nel 2013 al programma del governo australiano per scoraggiare gli arrivi via mare; includeva pagamenti ai contrabbandieri indonesiani per far tornare indietro le barche. Dal 2013, la marina australiana ha respinto almeno 31 imbarcazioni con 771 persone. Nonostante molti richiedenti asilo avessero rivendicazioni legittime secondo la stessa Australia, ciò ha avuto scarso effetto sul loro trattamento da parte dei funzionari, che spesso hanno ritardato le decisioni sul loro destino per anni. Il Dipartimento australiano per l’immigrazione e la protezione delle frontiere ha ignorato le mie ripetute richieste di commenti.

Il sostegno europeo alle politiche australiane per i rifugiati va ben oltre la retorica. Ho passato anni a indagare su questo problema e ho trovato prove che funzionari di nazioni europee e della stessa UE stanno segretamente incontrando omologhi australiani per capire come adottare tali politiche su scala continentale. Un ex alto funzionario dell’ONU, parlandomi sotto anonimato, mi ha confermato che nel 2016 il delegato del governo australiano per il traffico di esseri umani e il contrabbando, Andrew Goledzinowski, ha intrapreso un tour in Europa, cercando di convincere i governi e le Nazioni Unite delle virtù del modello offshore. Goledzinowski è ora l’alto commissario australiano in Malesia. Il governo australiano ha rifiutato di commentare la sua strategia per i rifugiati.

«Sono sicuro che questo tour è stato parte di uno sforzo australiano molto più ampio e a lungo termine per esportare e legittimare il suo approccio alla questione dei rifugiati», ha detto il funzionario delle Nazioni Unite. «Sotto questo aspetto, guardando alla traiettoria della politica di asilo dell’UE, ha avuto un discreto successo. Le intercettazioni delle guardie costiere libiche sono essenzialmente una versione dell’Operation Sovereign Borders più “simmetrica” tra le due parti (libica ed europea)».

All’inizio del 2017, i media australiani hanno riferito che almeno sei paesi europei chiedevano all’Australia consigli per gestire la crisi dei rifugiati. Un portavoce di Peter Dutton, all’epoca ministro per l’immigrazione australiano (ora ministro degli interni), ha dichiarato alla stampa che «un certo numero di nazioni europee e l’UE hanno chiesto consiglio al governo australiano sull’operazione Sovereign Borders. Il ministro ha avuto personalmente discussioni con diversi suoi omologhi europei».

L’anno scorso l’UE ha apertamente adottato politiche di protezione delle frontiere in stile australiano, pur continuando a negarlo. Quando l’Italia annunciò che avrebbe inviato la sua flotta mediterranea nelle acque libiche per intercettare i rifugiati e rimandarli in Libia, insieme ai piani per addestrare la guardia costiera libica a gestire il lavoro in autonomia entro tre anni, i diritti dei rifugiati furono ignorati.

La guardia costiera libica è sottofinanziata ed è stata accusata di abusi, tra cui spari sulle barche dei rifugiati, ma l’UE e l’Italia sono impegnate a rafforzare il ruolo della Libia come guardiano dei flussi migratori, anche se il paese è inghiottito dalla guerra civile e i richiedenti asilo vi hanno subito stupri, torture e schiavitù. Amnesty International ha accusato l’UE di complicità nei maltrattamenti – inclusa la tortura – dei profughi, pagando funzionari libici per lavorare con trafficanti di persone e gruppi di miliziani.

Nonostante questi problemi, secondo i documenti ottenuti dalla Reuters alla fine del 2017, l’Italia e l’UE prevedono di spendere 44 milioni di euro tra oggi e il 2020 per aiutare la Libia a organizzare una vasta impresa di ricerca e salvataggio in mare. Il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato lo scorso anno di voler costruire in Libia centri per l’identificazione di rifugiati, per valutare i candidati prima che arrivino in Europa (la Francia attualmente gestisce parte dei rifugiati in un piccolo avamposto in Niger).

L’UE fornisce già ingenti somme di denaro e aiuti alla Libia e al Niger, per bloccare in modo efficace in Africa quei rifugiati diretti in Europa. Entrambe le nazioni sono state citate da Amnesty International e altri gruppi per i diritti umani per aver commesso numerose violazioni nel trattamento dei rifugiati. L’UE, che da anni ha tranquillamente militarizzato le sue frontiere, prevede una spesa di miliardi per creare un esercito dell’UE. Quando ho chiesto alla Commissione europea in merito ai contatti con l’Australia sulle sue politiche in materia di immigrazione, ha affermato che non ce ne sono stati. Ma i funzionari della commissione mi hanno anche detto che avevano «enormi preoccupazioni» rispetto alla sicurezza in Libia e si sono quindi concentrati sul «rafforzamento della cooperazione con i paesi limitrofi per intervenire prima che i migranti intraprendano pericolosi viaggi in Europa e per prevenire le morti in mare, garantendo che i migranti trovino un rifugio nei paesi partner e aprendo vie legali all’Europa attraverso il reinsediamento».

I critici delle politiche europee sono stati sempre più emarginati. Jeff Crisp, ex capo dello sviluppo e della valutazione delle politiche presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, mi ha detto che la strategia dell’UE era «più intelligente di quella dell’Australia. Mentre Canberra impiega il proprio personale militare per implementare l’operazione Sovereign Borders, l’UE ha affidato il lavoro sporco alla guardia costiera libica e ai gruppi di milizie associati. E mentre lo scandalo della schiavitù libica minacciava di rivelare i fallimenti della politica dei rifugiati dell’UE, ora viene utilizzato da Bruxelles per suggerire che la migliore soluzione alla questione dei rifugiati è di rimandarli tutti ai loro paesi di origine».

Era forse immaginabile che l’Australia sarebbe diventata un’ispirazione per tutte le ragioni sbagliate. E con Trump alla Casa Bianca, Washington potrebbe seguire l’esempio.

Polakow-Suransky sostiene che l’amministrazione Trump potrebbe «tentare una politica in stile australiano su vasta scala e pagare i paesi più poveri dell’America Centrale per fermare il flusso di migranti o arrestarli». In effetti, Washington sta già pagando il Messico per mantenere i migranti lontano dal confine con gli Stati Uniti e ha aiutato a militarizzare il confine messicano-guatemalteco per fermare il flusso di rifugiati. Gli appaltatori privati stanno attualmente raccogliendo ricompense finanziarie dalle rigide politiche di confine dell’era Trump. L’Australia è una delle nazioni multiculturali di maggior successo sulla terra, eppure il suo lascito è ora macchiato da sforzi estremi per disumanizzare le persone più disperate. Il mondo sta guardando e imparando.

*Pubblicato il 29 giugno 2018 dalla rivista statunitense “The Nation

 

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