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Pestaggio di Genova, nessun celerino si costituisce

Genova, cade nel vuoto l’appello della procura ai poliziotti responsabili del pestaggio del cronista. Il sindaco Bucci si schiera dalla parte di Casapound

Che tipo d’uomo è uno che in branco massacra di botte una persona inerme? Che tipo d’uomo se perdipiù indossa una divisa e se non risponde all’appello della procura di costituirsi visto che ha infranto la legge che avrebbe dovuto rappresentare? Che tipo d’uomo è lui e che tipo di polizia è quella che lo ha addestrato? Ecco le domande che scaturiscono dai fatti di Piazza Corvetto a Genova, la mattanza della polizia contro gli antifascisti e la macellazione di un cronista.

«Nessuno ha visto nessuno di Casapound andare contro la polizia o usare violenza, io ho visto altre persone andare contro Casapound e usare violenza», ha detto invece a Tursi il sindaco di Genova, il primo sindaco di destra, appoggiato anche dalla Lega e dai “post-fascisti” di Fdi, dalla caduta della Repubblica sociale. Marco Bucci, a caldo, era riuscito anche a fare di peggio dicendo «se uno è lì e lì», poi s’è disimpegnato come un Berlusconi qualunque dicendo di essere stato «completamente travisato».

Si stringe il cerchio, così si usa dire, intorno al gruppo di agenti del reparto mobile di Bolzaneto che giovedì scorso ha picchiato il giornalista di Repubblica Stefano Origone durante le cariche sugli antifascisti per consentire lo svolgimento, invece, del comizio di un’organizzazione dichiaratamente fascista, Casapound. Gli investigatori, della polizia come gli autori del delitto, hanno individuato alcuni elementi, dopo avere visionato le immagini dei numerosi video acquisiti, che possono ricondurre ai singoli celerini: si va dal tipo di scudo imbracciato, alla stessa corporatura, fino a una sacca attaccata alla gamba. Questi elementi saranno incrociati alla lista consegnata dal dirigente Giampiero Bove sabato scorso davanti al pubblico ministero Gabriella Dotto. All’elenco di nomi è allegato anche la lista delle dotazioni.

Questa mattina in procura è stato sentito il cronista. «Non li ho visti – ha detto al pm – mi hanno colpito e hanno continuato a farlo nonostante urlassi che ero un giornalista. Non smettevano più: ho cominciato a dire basta e a un certo punto ho dubitato di uscirne vivo». A Origone gli investigatori della mobile, guidati dal dirigente Marco Calì, hanno mostrato le foto di alcuni manifestanti e di agenti per capire se ne riconoscesse qualcuno. L’auspicio dei magistrati è che chi ha colpito si faccia avanti spontaneamente altrimenti «torneranno tempi bui» come sottolinea una fonte qualificata.

A ore verrà invece sentito, sempre in tribunale, il vice questore aggiunto Stefano Perrìa, immortalato in un video mentre segue il gruppo di agenti e poi allontanarsi. Per quanto riguarda la seconda inchiesta, quella sui manifestanti, la digos sta analizzando una grande quantità di materiale video-fotografico ed entro la settimana dovrebbe essere depositata in procura una prima tranche di denunce per reati che vanno dal lancio pericoloso di oggetti alla resistenza a pubblico ufficiale alle lesioni, per un numero che potrebbe essere orientativamente quello di una quindicina di persone.

Insomma non si fa avanti nessuno degli “eroi” che si sono accaniti 4-5 contro 1 perdipiù disarmato, tuttavia stanno per scattare le manette – reali o figurate – intorno a chi contestava legittimamente l’agibilità di piazza per un comizio neofascista e lo sgomento della stampa “per bene” sembra solo derivare dal fatto che la vittima, stavolta, sia uno di loro.

«Al di là delle immagini che abbiamo visto, non sono folli», ha dichiarato Giampiero Bove nei giorni scorsi il poliziotto che a Genova ha salvato Origone dalla carica di altri agenti. «Ho sentito urlare “sono un giornalista” e siccome avevo visto Stefano Origone qualche secondo prima, ho ricollegato l’urlo a lui e mi sono catapultato per allontanare gli agenti».

«L’ho abbracciato – continua Bove – gli ho detto chi ero, l’ho tranquillizzato. Lui mi ha riconosciuto, ha mostrato la mano dove era stato colpito. L’ho portato al sicuro perché dall’alto nel frattempo arrivavano pietre. Vedendo che la situazione era critica ho detto al mio autista di allontanarlo in via Assarotti». Il dirigente è stato sentito in procura. «Sicuramente si capirà quanto successo. Al di là delle immagini, i colleghi non sono così folli. È stato sicuramente un momento brutto, la magistratura chiarirà, ma i colpi non erano dati per uccidere», aggiunge. Gli scontri sono avvenuti tra gli agenti e diverse decine di manifestanti antifascisti che volevano impedire un comizio elettorale di una ventina di militanti di Casapound. Gli investigatori della mobile, coordinati dall’aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e dal sostituto Gabriella Dotto, hanno letto le relazioni dei due capisquadra che comandavano i 20 uomini del reparto e non è escluso che gli inquirenti chiedano una relazione anche ai singoli poliziotti.

Gli abusi e le violenze di carabinieri e poliziotti in ordine pubblico sono ormai una costante nelle manifestazioni di piazza come se l’esercizio arbitrario della violenza fosse stato ulteriormente sdoganato dalla presenza al Viminale, dopo quella di Minniti (Pd), del leader di una forza politica con un bagaglio ideologico (ed evidenti collisioni) in gran parte sovrapponibile con quello di Forza Nuova, Casapound, Lealtà e Azione, Fiamma futura e altre sigle della galassia nazi-fascista. Sarebbe tuttavia un errore credere che sia solo la Lega di Salvini ad alimentare il brodo di coltura per le performance più violente di chi opera in ordine pubblico. E per la loro impunità. Ne sanno parecchio i No Tav: dalle prime 21 querele del dicembre 2005 per le violenze durante lo sgombero notturno di un presidio No Tav a Venaus, inizia una serie ininterrotta di archiviazioni, quasi sempre per l’impossibilità di identificare gli autori delle condotte delittuose. In quel caso il gip parlò di «frequenti ed estesi» episodi di violenza da parte di operatori in ordine pubblico e definì «almeno in parte false» le versioni dei 18 funzionari che furono ascoltati. Perché non ci fu alcun procedimento? Perché nessun giudice s’è ricordato che anche chi assiste a reati di colleghi dovrebbe intervenire o, almeno, denunciare? Non esiste una responsabilità per chi comanda le operazioni? Perché nessuna inchiesta è stata aperta anche quando la gravità delle lesioni avrebbe richiesto l’apertura d’ufficio? Domande inevase allora e in tutti gli altri casi di abusi, violenze contro donne e uomini di ogni età, danneggiamenti gravi, uso di armi improprie e uso improprio di armi legittime, ingiurie sessiste e torture sugli arrestati. Decine e decine di archiviazioni e, in parallelo, processi rapidissimi e condanne pesanti contro i manifestanti. Il dubbio è che alla Procura di Torino interessi più colpire piccoli reati simbolici, come il taglio delle reti del cantiere, piuttosto che reati per lesioni gravissime e violazioni dell’articolo 3 della Convenzione di Strasburgo.

L’unica divisa indagata in Valle è quella di un Cacciatore di Sardegna, reparto di carabinieri che fa la spola con i teatri di guerra. Il 3 luglio 2011, a Venaus, il militare pestò un ragazzo arrestato mentre era sotto il controllo totale dei pubblici ufficiali. Un reato molto grave, come riconobbe la Corte europea di giustizia nella sentenza su Bolzaneto. Fu indagato ma se la cavò con la messa alla prova, non una condanna ma una misura che estingue la pena, e 1.500 euro di risarcimento al manifestante.

Il Coisp, ma anche altri sindacati del comparto, strepitano appena possono contro il «partito dell’antipolizia». Esiste quel partito? O piuttosto non esiste un partito della polizia, come ha titolato un suo libro-inchiesta il giornalista genovese di Repubblica, Marco Preve? Libro che si apre proprio con una frase che la dice lunga: «Speriamo che muoiano tutti. Tanto già uno… 1-0 per noi». La polizia dei De Gennaro, Manganelli, Gratteri e Caldarozzi non ha mai ritenuto di dover scoprire, per punirla, il nome della poliziotta del 113 che così si espresse dopo la morte di Carlo Giuliani, luglio 2001.

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