Il trauma bellico è indifferente al colore della pelle. Fratelli d’anima di David Diop (Neri Pozza 2019)
di Carlo Scognamiglio
Non molti sanno che durante la Prima guerra mondiale alcune grandi potenze europee, all’apice della propria espansione imperialista, reclutarono come forza di combattimento da impiegare nelle trincee, interi reparti costituiti da soldati provenienti dalle colonie. La dimensione mondiale del conflitto, infatti, non riguardava soltanto l’estensione territoriale dei teatri di guerra aperti in quel quinquennio, ma anche dall’articolazione planetaria della forza bellica.
In un intenso romanzo (Fratelli d’anima, Neri Pozza 2019), David Diop ha raccontato la partecipazione dei fucilieri senegalesi al servizio della Francia, sul fronte occidentale. Un manipolo di soldati indotto a giocare una doppia guerra: quella militare e quella psicologica, contro il nemico tedesco. La doppiezza è rappresentata efficacemente dall’equipaggiamento: in una mano il fucile, nell’altra il machete. L’idea era quella di spaventare i tedeschi, ponendogli di fronte un nemico non noto, culturalmente percepito come selvaggio, spietato, imprevedibile. I ragazzi partiti dal Senegal, raccontati in questa storia, non sono oggetto di una tratta schiavistica. Hanno spontaneamente deciso di arruolarsi, per emanciparsi, per ottenere la cittadinanza francese, ascendere la scala sociale. La situazione senegalese del primo Novecento non viene tracciata da Diop come condizione di povertà da cui fuggire, e anzi se ne coglie, nell’evocazione narrativa, anche una certa nostalgia per un sistema di valori smarrito col tempo.
Ma che si vuole? I ragazzi sono ragazzi, hanno in testa tante aspirazioni, e così abboccano alla propaganda, per partecipare a una guerra su un terreno sconosciuto, contro un nemico dagli occhi azzurri, mai visto in precedenza, con modalità di combattimento ignote persino agli europei.
È la guerra di trincea. Perché Diop ha la capacità di raccontarne il cuore senza indugiare troppo sul tema. In realtà i disturbi psichici provocati ai soldati, bianchi e neri indifferentemente, sono il vero oggetto del romanzo. È la storia di una patologia questa, non di una persona.
Alfa, questo il nome del protagonista, assiste il suo amico fraterno Mademba negli ultimi istanti di vita, e non ha il coraggio di infliggere al suo fratello d’anima un colpo di grazia, nonostante le implorazioni, per liberarlo da quel dolore atroce. Ne segue un travolgente monologo interiore, la ricostruzione della propria reazione al trauma, gli impressionanti atti di violenza perpetrati in spietata successione. Le pseudo-ragioni di questa catena distruttiva diverrà chiara al lettore solo arrivando a leggere l’ultima pagina del romanzo. E sarà una pagina spiazzante, come quelle poesie che hanno una grande – e non retorica – chiusura ad effetto.
Quel che ne resta è la riflessione complessiva sulla dimensione demolitrice, soprattutto da un punto di vista psichico e valoriale, della guerra tecnologicamente avanzata. Non c’è da sorprendersi troppo, dunque, che l’esito primo di quel conflitto furono le catastrofiche dittature del Novecento.
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