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Vamos Canchánchara [Parole in fondo al bicchiere]

Vamos Canchánchara. Però io sono soltanto un barman, non un giornalista, né un politico e nemmeno un divulgatore , racconterò questa storia come meglio posso

Sogno le fiamme. Sogno il fuoco che cammina con me attraverso le foreste della mia infanzia, quando mio nonno mi portava a conoscere il valore della vita a contatto con il bosco, quando imparai i nomi delle piante, a riconoscere i funghi buoni da quelli velenosi, gli animali pericolosi da quelli innocui. Sogno le fiamme. Un fuoco che non accenna a placarsi e cresce di intensità ad ogni passo che compio su per questa strada tortuosa di sassi e ghiaia, che ghermisce ogni vegetale, ogni creatura e così anche il volto dei miei cari sulla corteccia raggrinzita degli alberi. Sogno le fiamme e tra quelle fiamme vedo prendere vita uno strano guerrigliero, a malapena un ragazzo, dai classici lineamenti dei nativi dell’Amazzonia.

Qualcosa mi sta dicendo che sono sulla pista sbagliata o forse vittima di una qualche forma di malattia virale in grado di provocare febbre alta e miraggi allucinatori durante il dormiveglia. Mi sveglio fradicio, con una forte emicrania e la gola riarsa dalla disidratazione. Il volto di quel ragazzo permane nel mio campo visivo ancora per diverso tempo, anche quando mi alzo e scendo giù per le scale del Galvão Motel di Manaus, fino alle macchinette distributrici di bevande. Lo vedo riflesso sul vetro, tra le lattine di cola e quelle di soda, come se fosse seduto sugli scalini metallici alle mie spalle. L’aria è pesante, pesante e irrespirabile e forse ho la gola secca proprio per quello. E’ il puzzo dei fuochi, quelli che stanno divampando lontano dalla civilizzazione di questi tempi moderni. Le fiamme inestinguibili del progresso, appiccate da coloro che sul progresso ci lucrano. Quando mi rialzo dopo aver recuperato la lattina di soda, il mio ospite non c’è più.

Soltanto poche ore dopo mi imbarco su un battello fluviale, la Nariño, sulla quale devo incontrare Mauro Ribeiro Piojo do Corsàiro, detto Piojo per collaborare con lui, solo quella sera, al bar del salone delle feste. Non ho mai capito come funzionano i soprannomi brasiliani ma so che sono molto importanti nella loro cultura. Piojo è un ometto gentile e chiacchierone e questo rende più facile il mio compito, capire qual è la vera storia del Canchánchara. Taluni dicono che il cocktail prenda il nome dalla città cubana, ma la versione che conosco io è sicuramente più interessante e misteriosa. Lessi che la sua origine la si doveva cercare ai tempi di Silvério José Néri, che fu governatore della regione dell’Amazzonia all’inizio del ventesimo secolo, durante la contesa con la Bolivia per la Repubblica di Acre e al gruppo di guerriglieri che condividono il nome con la rinfrescante bevanda al miele.

Piojo è molto informato sui fatti e durante la serata mi racconta tutta la storia romanzata dei Canchánchara, oltre che alla sua personale ricetta. Si tratta di intingere un dipper di miele nel rum, mescolato insieme al ghiaccio e al lime pestato dentro una coppa di terracotta. Molto semplice e veloce, tanto che finora soltanto io ne avrò preparati una cinquantina. Tutte le volte che ci prendiamo una pausa, Piojo mi racconta un pezzo di quella storia tanto fiabesca da sembrarmi sempre un po’ più falsa, eppure ogni volta che inizia a raccontare io vedo quel ragazzo del mio sogno seduto da qualche parte, il guerrigliero. Una volta è appoggiato alla balaustra del battello, sul ponte superiore e io mi domando se non sia lo spirito di uno di quei Canchánchara che erano morti per la causa. Eppure sono certo che sia un’allucinazione dovuta alla febbre, acuita dall’aria irrespirabile pregna di carbone e fulligine, originati dai fuochi che stanno radendo al suolo le foreste, le case e i villaggi degli indigeni, quelli che per Bolsonaro sono soltanto danni collaterali dell’avanzare del progresso. Nonostante io sia un progressista, questo progresso inizio ad averlo un poco in antipatia.

La seconda volta vedo il mio amico guerrigliero seduto al tavolo del comandante, mentre gli ruba il cibo dal piatto e chiedo a Piojo se per caso lo vedesse anche lui, ma quando cerco di indicarglielo è scomparso. Pensa te. Basta voltarsi un istante che la prova della teoria di Mauro Piojo sul Canchánchara scompare nel nulla, come gli ettari di foresta pluviale che se stanno andando in fumo, soltanto a poche centinaia di chilometri da me. La febbre è decisamente alta e l’umidità e l’aria pregne di fumo non aiutano per niente a farmi stare meglio. Mi siedo a osservare le fiamme su una panchina sul ponte superiore della Nariño e quelle fiamme nemmeno ci sono, eppure sento il loro calore, nascosto dalle fronde degli alberi, laggiù oltre il fiume, oltre il Rio delle Amazzoni. Questa febbre mi preoccupa, perché ci stiamo addentrando sempre di più verso il centro delle foreste pluviali, sempre più lontani da quella civiltà che potrebbe curarmi con qualcuna delle sue diavolerie farmaceutiche. Piojo si siede accanto a me e non riesco a distinguerlo dal mio amico guerigliero, il segno che è giunta l’ora di riposare.

Durante la notte sogno di nuovo le fiamme, così intense da ardermi dentro e farmi bruciare i polmoni, così dolorose da perforarmi il costato dall’interno, fino a sprigionarsi come due vampe dalla schiena, tanto luminose da potersi vedere dall’alto dei cieli. Mi sveglio madido di sudore un paio di giorni dopo, nel letto della mia cabina della Nariño e pare che Piojo abbia preparato una medicina naturale tramandata dai suoi nonni, che a quanto pare sta facendo effetto sulla febbre. Per un istante soltanto ho pensato che il mio guerrigliero allucinatorio abbia sussurrato la ricetta della medicina al mio medico improvvisato durante la notte, ma anche questo potrebbe essere un effetto residuo della malattia che mi porto appresso. Nel tardo pomeriggio facciamo ritorno a Manaus, dopo un viaggio di due giorni sul Rio, prendo un taxi per tornare al motel in attesa del volo e mentre ci allontaniamo vedo il guerrigliero del mio sogno sulla banchina del porto fluviale. Lo saluto con un cenno della mano e lo ringrazio per avermi salvato dalla febbre cocente, la stessa che sta bruciando da anni nel cuore dell’Amazzonia e che solo in questi giorni sembra essere diventato uno scoop mondiale. Però io sono soltanto un barman, non un giornalista, né un politico e nemmeno un divulgatore di qualche genere, racconterò questa storia come meglio posso, solo una misera ricompensa per il mio compagno guerrigliero, per la cura di una malattia endemica di un paese che ha scelto di seguire la deriva mondiale votata al capitalismo e all’avvilimento di quei valori che farebbero dell’uomo una creatura elevata.

Un paio di giorni dopo mi imbarco sul mio volo per l’Aeroporto Internazionale Josè Martì. Non tornerò a casa, il mio volo è per Cuba, perché in realtà la mia ricerca sul Canchánchara non è ancora finita. Vamos!

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