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Processo Cucchi: chiesti 18 anni per i carabinieri che lo pestarono e 8 per il maresciallo regista dei depistaggi

Processo Cucchi, il pm Musarò chiede di condannare a 18 anni i due carabinieri che pestarono Stefano e chiede otto anni per il maresciallo Mandolini

Processo Cucchi-bis: il massimo sarebbe 30 anni ma il pm Musarò, al termine di una lunghissima requisitoria nell’Aula bunker di Rebibbia, ha chiesto una «pena giusta», non una «pena esemplare», «non meno di 18 anni di reclusione» per i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro imputati per l’omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi. La notte del suo arresto per droga il 15 ottobre 2009 fu pestato tanto violentemente da portarlo una settimana dopo alla morte e subito dopo fu realizzata un’opera di falsificazione di atti per fare ricadere la responsabilità di tutto su alcuni agenti della Polizia penitenziaria che sarebbero stati poi assolti in maniera definitiva. Sono queste le conclusioni della procura. «Un fatto commesso per futili motivi, con abuso dei poteri di un pubblico ufficiale, e – l’aggravante più odiosa per la pubblica accusa – la minorata difesa di Stefano Cucchi, e la totale successiva mancanza di pentimento»: per questo Musarò ha chiesto alla Corte di «valutare l’intensità del dolo» e condannare i carabinieri. Otto anni la richiesta per «l’ambizioso» maresciallo Mandolini e 3 anni e 6 mesi per Francesco Tedesco, di cui si chiede l’assoluzione per l’omicidio – è stato lui uno dei supertesti di questo processo bis – ma per il quale Musarò chiede una condanna senza attenuanti per il reato di falso, per aver preso parte al tentativo di scaricare sulla penitenziaria la responsabilità della sorte di Cucchi. «Mandolini ha un ruolo centrale in tutti i falsi», secondo il pm Musarò, «dal primo volgare verbale d’arresto», «un falso ideato e pianificato dal maresciallo, e una condotta coerente con questo falso nei giorni successivi», dopo la morte di Stefano Cucchi, con varie annotazioni e il «famigerato ordine di servizio», quello in cui diceva “bravi!!!!” ai carabinieri coinvolti nell’arresto, e con le minacce a Tedesco per fargli seguire la «linea dell’Arma» fino a indurlo Tedesco al falso, e inoltre falsificando le informazioni su Cucchi, scrivere che fosse senza fissa dimora così da impedirgli i domiciliari e spalancargli le porte del carcere. Il muro di gomma nelle stazioni e nei comandi, descritto da Tedesco, ha «trovato – secondo il pm – riscontri imbarazzanti nel processo». «Mandolini ha inquinato le prove fino all’ultimo, una condotta ben più grave di Tedesco».

Il pestaggio selvaggio e vile

Una requistoria lunga (è iniziata già il 20 settembre) e serrata nella quale la pubblica accusa ha spiegato le cause della morte e il nesso di causalità con il «pestaggio selvaggio e vile» fino ad arrivare al depistaggio, che sarà oggetto di un ulteriore processo, da parte di altri carabinieri e ufficiali dell’Arma, come quel generale Casarsa che solo 24 ore dopo la morte di Cucchi, ha ricordato Musarò, avrebbe orchestrato «non si capisce in nome di cosa» degli «accertamenti paralleli» per montare la versione ufficiale di una morte causata da una presunta frattura pregressa alla vertebra L3 e da appioppare alle condotte omissive dei medici. Ma Stefano andava a correre ogni giorno, tre volte a settimana in palestra e praticava la boxe «quasi ossessivamente» e la sua magrezza era dovuta esclusivamente alla necessità di stare sotto i 44 kg, limite della categoria dei supermosca. «Non era magrezza patologica», non si stancherà di ripetere il pm citando medici e consulenti, smentendo di nuovo, se mai ce ne fosse bisogno, che Cucchi fosse stato sieropositivo. E se perse sei chili in sei giorni è solo «a causa del trauma subito». «Non riusciva a mangiare perché aveva male dappertutto, come diranno negli anni, gli agenti della penitenziaria e i sanitari che con lui ebbero a che fare. Non mangiava perché non riusciva. Sindrome post traumatica da stress. La stassa ragione per cui restò sei giorni con lo stesso maglione, lui che a casa si faceva tre docce al giorno.

 

L’impossibile epilessia

Musarò, nella sua argomentazione, si blinda dietro i codici, la letteratura medica e giuridica e le perizie. Insiste a lungo sulle conclusioni della perizia Introna che ha stabilito come le fratture alla schiena e le lesioni al volto fossero coeve, avvenute nello stesso momento. Il momento del pestaggio. «Immaginate di cadere – dice rivolto ai giudici popolari – sbattere e prendere un calcio in faccia, di notte, in un luogo chiuso». E’ quello che, appunto, è accaduto a una «persona fragile, che non ebbe la possibilità di difendersi». E la magrezza, che tanto ha ossessionato gli imputati e i loro difensori, diventa un «elemento a carico anche sotto il profilo del dolo. Di questo si dovrà tenere conto», avverte Musarò che smonta anche l’ipotesi di una morte improvvisa da epilessia, Sudden Unexpected Death in Epilepsy (SUDEP), non documentabile e priva di riscontri oggettivi. La Sudep presuppone pazienti farmaco-resistenti e Cucchi, al contrario, era in fase di remissione, da anni non aveva crisi. Per la pubblica accusa il contributo della perizia Vigevano, un luminare dell’epilessiologia a livello mondiale, chiarisce che la posizione in cui fu rinvenuto Cucchi, con la testa sul cuscino e la mano sotto la guancia, esclude la Sudep e che nemmeno uno dei 10 fattori di rischio che determinano quella morte improvvisa era in corso. «L’unica spiegazione degna» è quella che considera il riflesso vagale brachicardizzante, ossia il rallentamento del battito fino all’arresto del cuore. «Il colpo di grazia», a sentire Musarò, di una miscela composta dal dolore per le fratture alle vertebre, che accentua la brachicardia, per gli antidolorifici come il Contramal, brachicardizzanti anche quelli, ma anche l’inanizione e lo stress da dovuto «alla posizione e alla situazione» contribuivano a minare quel cuore.

Tante cause ma tutte connesse alle botte

Il riflesso vagale, secondo le carte dell’accusa, è una diretta conseguenza del globo vescicale, «l’evidenza delle evidenze» è la vescica, «un mappamondo sul corpo esile di Stefano Cucchi» che conteneneva 1400 cc di urina perché il catetere non funzionava bene e nessuno lo controllò quell’ultima sera di vita del detenuto che, in quelle condizioni non se ne poteva accorgere per via della frattura di L3 che glielo impediva. «Dopo le sesquipedali sciocchezze» ascoltate in dieci anni, Musarò mette in fila questi fattori e insiste che sono «tutti connessi al pestaggio» raccontando ai giudici popolari il caso Battaglia, un uomo finito in ospedale per la frattura di un gomito e che morì 15 giorni dopo, dopo aver fatto uso di cocaina e dopo essere uscito di sua volontà dall’ospedale. Tutto ciò non ha impedito una condanna per omicidio a chi gli fratturò il gomito. «Se non ci fosse stata la frattura delle vertebre verosimilmente Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e non sarebbe morto». «L’omissione dei sanitari è una causa susseguente, sopravvenuta. La condotta medica non esclude il nesso di causalità», ha sottolineato Musarò citando l’articolo 41, comma 2 del Codice penale e concludendo con la «preghiera laica di una pena giusta senza escamotage come quello delle attenuanti generiche per chi ha inquinato le prove per quasi dieci anni.

Fabio Anselmo: «Il tema è soprattutto medico-legale»

«Questo processo ci riavvicina allo Stato, riavvicina i cittadini e lo Stato. Non avrei mai creduto di trovarmi in un’aula di giustizia e respirare un’aria così diversa. Sembra qualcosa di così tanto scontato, eppure non è così», ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E se per i legali dell’imputato-accusatore, Francesco Tedesco, «la sua scelta coraggiosa è stata certamente un passo importante per la sua difesa ma anche un contributo generoso per la credibilità dell’Arma», l’avvocato storico della famiglia Cucchi e protagonista di altri casi di malapolizia, Fabio Anselmo ha detto di non volere «contentini, non vogliamo pene esemplari, vogliamo solo verità e giustizia. Siamo esausti, provati; siamo di fronte a una famiglia che sta male. L’unica speranza che possiamo dare è restituire quella verità, quella giustizia, quella dignità che meritano». La sua è stata una arringa meticolosa e molto tecnica, tesa a prevenire la prevedibile linea dei difensori, quella di arroccarsi sulla retorica patriottarda sull’onore dell’Arma e dietro l’ambigua perizia del primo processo, quello nel quale i carabinieri erano ancora avvolti nel cono d’ombra tessuto dal governo di allora, II gabinetto Berlusconi, a partire dal ministro La Russa per arrivare al ministro dei Rapporti col Parlamento Carlo . «Il tema è soprattutto medico-legale», ha ricordato alla giuria ripercorrendo il «percorso tortuoso», la «caduta del salvagente dell’epilessia», la mistificazione che ha costruito l’immagine di Stefano Cucchi come «tossico, anoressico, sieropositivo, zombie affibbiatagli da Giovanardi: era un geometra che conduceva una vita assolutamente normale». Il «peccato originale» di questa vicenda è nella prima autopsia superficiale che ha dato inizio a una serie di depistaggi anche sul piano medico-legale. «Una strategia – anche secondo Anselmo – studiata a tavolino», per scaricare sulla penitenziaria o comunque per dipingere il ritratto di un ragazzo che non avrebbe più avuto interesse alla vita. Prossima udienza il 16 ottobre, sentenza prevista il 14 novembre.

 

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