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Il peso politico di un problema filosofico

La responsabilità del positivismo e della comunità scientifica del primo 900 nella formazione dei sistemi politici imperialisti e dittatoriali

di Carlo Scognamiglio

Qualche volta si può anche dir bene delle chat di WhatsApp. Spesso sono invadenti, superficiali, o comunque ridondanti nell’eccessiva riproposizione di meme, emoticon e ringraziamenti reiterati. Quegli scambi possono divenire tuttavia occasioni per fugaci confronti intellettuali, poco approfonditi, ma ugualmente stimolanti. Ci vuole poco a suscitare la curiosità degli esseri umani.

Alcuni giorni fa, scherzando in chat con alcuni amici e colleghi, è emersa – tra il serio e il faceto – l’esigenza per alcuni di un apparentamento tra la filosofia di Hegel e l’ideologia nazionalsocialista. Essendomi occupato per un buon periodo della mia vita sia di Hegel che del nazismo, mi sono sentito in dovere di opinare che quel nesso non sussiste, e che forse andrebbe meglio considerata la responsabilità storica, culturale e ideologica del positivismo e della comunità scientifica primo-novecentesca nella formazione dei sistemi politici prima imperialisti e poi dittatoriali, nel cuore dell’Europa. Racconto questo episodio perché il mio appunto ha immediatamente attivato tra i miei interlocutori virtuali una reazione quanto mai sorpresa. Il che, naturalmente, ha finito per sorprendere me.

Neanche a farlo di proposito, il giorno successivo mi è capitato tra le mani un vecchio articolo di Herbert Marcuse, scritto nel 1936 e appena ripubblicato da ETS con il titolo: Sul concetto di essenza… Il cacio sui maccheroni.

Marcuse è stato certamente uno dei più importanti pensatori del secolo scorso. È riuscito ad assorbire, senza farsene schiacciare, tendenze filosofiche tra loro anche molto diverse. Conosceva bene il nazismo, delle cui persecuzioni era stato bersaglio, e pure l’hegelismo, di cui si dichiarava in certo modo prosecutore.

In questo articolo Marcuse prova a fare chiarezza su come una questione apparentemente lontana dalla prassi, come la categoria filosofica di “essenza”, giochi invece un ruolo fondamentale nella costruzione di paradigmi e visioni del mondo, più o meno strutturali per il pensiero politico dominante. La domanda sull’essenza è la domanda filosofica per definizione. I presocratici, nel cercare l’arché, intendevano il sottostante, o soggiacente, alla variabilità e pluralità dei fenomeni. Platone provò a porre l’essenza in una dimensione separata, ma non in una sterile separazione. L’idea era quella di “salvare i fenomeni”, ponendo l’esistente come tendente all’ideale. Cosi per la repubblica ideale diviene implicita la responsabilità umana di fare in modo da comprimere il più possibile la distanza tra l’organizzazione politica concreta e il suo modello armonico. Analogamente nell’etica, dove agisce – come in ogni angolo del reale – l’idea del “bene”, quale principio e destinazione di ogni tendenza. Una dinamicità assai più marcata la si può ritrovare nell’ontologia aristotelica. Con il pensiero medievale, la responsabilità di colmare quella differenza ontologica è demandata a Dio, e l’uomo ne è dispensato.

Ma è con la modernità, a partire da Descartes, che il problema dell’essenza inizia ad acquisire il soggettivistico tratto borghese, essendo sottratto all’ontologia per trascendere nell’orizzonte della gnoseologia. E la teoria diventa a sua volta funzionale alla prassi, facendosi strumento produttivo tout court: “conoscendo la forma e gli effetti del fuoco, dell’acqua, dell’aria, degli astri, del cielo e di tutti gli altri corpi che ci circondano…, noi li potremmo impiegare allo stesso modo in tutti gli usi ai quali essi sono adatti, e così renderci maestri e possessori della natura”[1].

Secondo Marcuse, nel passaggio tra medioevo ed età moderna la stabilità dell’ordine sociale si è dissolta. Il sistema borghese, nella sua irregolarità, è strutturalmente inquieto, insicuro. Si vive in una condizione di rischio costante nell’esistenza economico-politica, rispetto alla quale il singolo è costretto nei suoi movimenti a subire gli effetti di dinamiche incontrollabili. Pertanto si aspira almeno a una dimensione di certezza e libertà recluse nel recinto del pensiero. Per Descartes l’essenza dell’uomo non può che trovarsi nel pensiero. È questo il passaggio più evidente, osserva Marcuse, con cui “la questione dell’essenza: dell’unità, verità e autenticità dell’essere, si trasforma nella questione dell’unità, verità e autenticità della conoscenza” (p. 17). Con il trascendentalismo kantiano tale orientamento filosofico matura e si sviluppa. Marcuse arriva a definire il “metodo trascendentale”, come “metodo specifico della filosofia borghese” (p. 18). Rispetto a Descartes, Kant procede più a fondo nell’analisi della libertà, ma si muove comunque in una dimensione della ragione soggettiva, non un vero e proprio dato ontologico. La ragione è libera e può avviare una catena causale senza essere a sua volta causata. Ma la sua libertà si ferma qui, le dinamiche innescate riprecipitano in una legalità determinata: “così in questa dottrina si rispecchia di nuovo il destino di un mondo in cui la libertà razionale dell’uomo può fare liberamente soltanto il primo passo per imbattersi poi in una necessità incontrollata, che rimane accidentale di fronte alla ragione” (p. 20). Superata la parentesi hegeliana, su cui torneremo, sono il positivismo e poi la fenomenologia husserliana ad annichilire definitivamente la questione dell’essenza, schiacciandola sull’esistente soggettivo. Per i positivisti abbiamo solo un’indifferente carrellata di dati di fatto, rispetto ai quali il problema dell’essenza neanche si costituisce, mentre invece la fenomenologia riduce la “profondità” della distanza tra essenza ed esistenza alla dimensione unica del momento eidetico, in cui l’oggetto “si dà” alla coscienza. L’essenza diventa fenomeno, e nella soggettività trascendentale ogni cosa è equivalente come “fatto della coscienza”.

Rispetto alla filosofia kantiana, tuttavia, i positivisti prima e i fenomenologi poi, attraverso questo assoluto livellamento, perdono anche la profondità della coscienza oltre quella dell’oggetto, e con ciò smarriscono pure il concetto della libertà. Infatti la constatazione dei dati di fatto “reali”, porta con sé l’idea della rassegnazione, dell’impossibilità di vedere o anche ipotizzare il cambiamento: “quando il mondo dei dati di fatto ‘semplicemente reali’ è dominato da poteri a cui interessa il mantenimento di questa figura della realtà, nell’interesse di piccoli gruppi economici contro la possibilità già reale di un’altra figura della realtà, quando la tensione tra essenza e dato di fatto nella forma di una tensione sociale universale determina l’immagine storica della realtà effettuale, allora la teoria di una realtà effettuale che è ‘sempre essenza’ può soltanto rappresentare una rinuncia” (p. 32). Da questo punto di vista, positivismo e fenomenologia sarebbero parimenti sovrapponibili a sistemi illiberali.

Com’è noto, per Hegel la relazione tra essenza ed esistenza è invece dialettica, e recupera la sua antica dinamicità. L’essenza deve manifestarsi. È sé stessa solo in quanto si manifesta, non è mai un puro essere in sé, ma attraverso i fenomeni “diventa sé stessa”. Simmetricamente i fenomeni diventano la loro stessa essenza, la loro verità. Per Hegel, dunque, l’essenza ha “storia”, ha un movimento. Dire che le cose hanno un’essenza, per Hegel, significa affermare che esse non sono ciò che risultano immediatamente, il loro esserci non corrisponde a ciò che sono in sé, ma questa loro essenza non si trova né dietro né oltre loro, bensì costituisce il loro stesso divenire. In Hegel – sottolinea Marcuse – sussiste una dimensione ontologica che riconduce tutto al logos, di cui l’uomo è partecipe, e che quindi può cogliere nella sua comprensione soggettiva in virtù della razionalità, ma non è l’uomo ad agire per movimentare quel processo di riconduzione dell’esistenza all’essenza. È un movimento logico, non fattuale. E sarebbe questo il limite di Hegel, nonostante i suoi meriti. Solo con il materialismo marxiano la potenza di quella dialettica riesce ad uscire dalla prigione del trascendentale e divenire strumento di trasformazione fattuale. L’essenza dell’uomo è la totalità del processo sociale così come è organizzato in una certa epoca della storia, e l’essenza o strato di fondo del vivere sociale nell’epoca presente è l’economia. Politica, diritto, istruzione, scienza, sono le forme fenomeniche di quell’essenza. Ma attraverso la critica dei fenomeni si possono vedere altre possibilità di realizzazione dell’essenza umana, alternative a quelle date, per la “reale attuazione di ciò che l’uomo vuole essere quando si concepisce nelle sue possibilità” (p. 38). Si vede bene quindi per Marcuse quanto sia importante restituire il concetto di essenza a quello platonico di possibilità ideale, unita al divenire storico, per riportare ciò che è a ciò che per essenza potrebbe essere in sé. Alcuni slanci espressivi, sembrano già anticipare l’ondata creativa auspicata ne L’uomo a una dimensione, il libro che divenne un riferimento imprescindibile per il movimento studentesco del Sessantotto. Si possono certo intravedere alcune fragilità argomentative nel ragionamento di Marcuse, tuttavia il suo lavoro ermeneutico è senz’altro pregevole.

Il pensiero dialettico, in generale, non ha rapporto con il nazionalsocialismo, ma possiede quella forza creatrice che vi rintracciarono giovani hegeliani come Stirner, Feuerbach e Marx. Al contrario, positivismo e fenomenologia fanno il paio con l’idea di una “fattuale illibertà e impotenza dell’individuo in un processo anarchico di produzione” (p. 44). E questo è vero, come è indiscussa la responsabilità di gran parte della comunità scientifica di appena un secolo fa, nel definire la “natura” umana attraverso paradigmi e stigmi legati alla razza, all’ “igiene sociale”, al culto dell’efficienza ingegneristica, applicata oltre ogni ammissibile confine etico. Ma questo è tema di un’altra discussione.

[1] R. Descartes, Discorso sul metodo, in Discorso sul metodo. Meditazioni filosofiche, tr. it. di A. Carlini, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 44.

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