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22 anni all’assassino di Soumayla Sacko

Condannato l’uomo che uccise Soumayla Sacko, sindacalista Usb che stava aiutando un suo connazionale a costruirsi un riparo per la notte

I giudici della Corte d’assise di Catanzaro hanno condannato a 22 anni di reclusione per omicidio volontario Antonio Pontoriero, accusato di avere ucciso a colpi di fucile, il 2 giugno 2018, il sindacalista dell’Usb e bracciante di origine maliana Soumayla Sacko. Il ragazzo, di 29 anni, insieme a un amico, si era recato nella fabbrica dismessa di località «Tranquilla», a San Calogero, piccolo centro del Vibonese, per recuperare lamiere in ferro utili a costruire un riparo di fortuna nella baraccopoli, poi sgomberata, di San Ferdinando (Reggio Calabria) dove viveva. Per l’accusa, il movente dell’omicidio è da ricercare nell’incapacità, da parte di Pontoriero, di sopportare l’ennesima irruzione nell’area dell’ex Fornace che considerava sua. Omicidio volontario, detenzione e porto illegale di armi da fuoco e munizioni i reati contestati. La salma di Soumayla Sacko – padre di una bimba di 5 anni – fu trasportata suo villaggio del Mali per essere sepolto. 

Così i suoi compagni di Usb: Nessuno può dimenticare la storia di Soumaila Sacko, bracciante e sindacalista USB ucciso a colpi di fucile da Andrea Pontoriero il 2 giugno 2018. Soumaila Sacko era sopravvissuto ad un naufragio mentre cercava di raggiungere l’Italia ed era anche sopravvissuto a due incendi nella baraccopoli di San Ferdinando. Quel giorno stava prendendo delle lamiere da uno stabilimento dismesso per costruire baracche nel ghetto di San Ferdinando, la baraccopoli in cui erano costretti a vivere moltissimi migranti sfruttati nelle campagne.
Con lui c’erano due compagni che sono riusciti a sfuggire al tragico tiro al bersaglio dell’assassino. Grazie alla loro testimonianza e alla loro tenacia è arrivata la sentenza della corte d’Assise: 22 anni di reclusione per Andrea Pontoriero che ad oggi non ha mai mostrato nessun segno di pentimento. Stando alla sentenza, andò in scena un vero e proprio “tiro al bersaglio”. Dopo aver sparato a Soumaila Sacko alla testa, Pontoriero avrebbe cercato di colpire anche gli altri due braccianti. Questa sentenza in primo grado non permetterà a Soumaila di tornare a vivere ma almeno questa volta si è arrivati alla verità

L’omicida è il nipote di uno dei soci della società proprietaria della ex fornace in cui è avvenuto il delitto. Un impianto abbandonato dopo essere stato sequestrato più di dieci anni fa nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza sullo smaltimento e lo stoccaggio di rifiuti industriali tossici e pericolosi. Secondo l’accusa, infatti, nei terreni della società “Fornace tranquilla”, nel corso degli anni sarebbero state stoccate oltre 135 mila tonnellate di rifiuti pericolosi e tossici. Una situazione che aveva indotto il prefetto di Vibo Valentia, nel luglio 2010, ad imporre la distruzione dei prodotti agricoli coltivati nelle vicinanze. Nell’inchiesta sono finite 12 persone per le quali è in corso il processo ma la quasi totalità dei reati ipotizzati, commessi dal 2000 al 2007, è già estinta. Un processo che sembra proprio non si riesca a celebrare. Il motivo dei continui rinvii è il ciclico ricambio dei giudici. In nove anni, sono stati ben otto i magistrati che si sono succeduti sullo scranno della presidenza del Tribunale monocratico di Vibo Valentia nel procedimento a carico di Giuseppe Romeo, di 73 anni, di Taurianova; Umberto Acquistapace (86) di Petilia Policastro; Stefano Romeo (30) di Taurianova; Angelo Vangeli (47) di Mileto; Vito Sabatelli (62) di Costernino (Brindisi); Antonio Roma (76) di Carovingio (Brindisi); Angela Ippolito (47) di Monopoli (Bari); Vito Antonio Sacco (59) di Carovingio; Luciano Mirko Pistillo (60) di Brindisi; Carlo Aiello (55) di Brindisi; Diego Baio (61) di Brindisi.

Al sequestro di auto e abbigliamento del Pontoriero, gli investigatori sono giunti dopo avere sentito i due maliani che erano con Soumayla e che hanno riportato solo lievi ferite. Uno di loro, in particolare, ha raccontato di avere visto arrivare una Fiat Panda bianca dalla quale è sceso un uomo che, dalla strada sovrastante la fornace, ha fatto fuoco quattro volte con un fucile caricato a pallettoni da una distanza di una settantina di metri per poi fuggire. Il testimone ha anche riferito le prime due lettere della targa e fornito una descrizione dell’abbigliamento che poi avrebbe riconosciuto quanto i carabinieri gli hanno mostrato alcune persone. A consentire di stringere il cerchio intorno al quarantatreenne c’e’ stato poi un altro importante elemento: un mese prima, il 5 maggio, alla stazione dell’Arma di San Calogero, era giunta una telefonata su presunti furti in serie nella zona dell’ex fornace. I militari, in quella circostanza, avevano identificato alcune delle persone che lamentavano la presenza di extracomunitari, tra le quali vi era proprio Pontoriero. Così gli investigatori, dopo avere memorizzato il volto dell’uomo lo hanno sottoposto, insieme ad altre 11 immagini, al testimone oculare del delitto che non ha avuto esitazioni.

Per contestualizzare l’omicidio abbiamo trovato queste parole di Antonella Bundu, consigliere comunale a Firenze, alla guida del gruppo di opposizione di sinistra “Sinistra Progetto Comune”: «Era il 2 giugno del 2018, il capo branco padano coniava lo slogan: “la pacchia è finita”; sempre il 2 giugno alcuni giornali , alla notizia dell’assassinio di Suomaila Sacko, scrivevano che “un gruppo di extracomunitari” (anche loro descritti come fosse un branco) “solitamente dedito ai furti, era stato notato in zona e non si esclude che qualcuno si sia fatto giustizia da solo”. Altri quotidiani più caritatevoli scrivevano che però Suomaila Sacko non era un “clandestino” ma aveva un regolare permesso di soggiorno ed era pure un sindacalista. E’ stato ucciso a colpi di fucile un uomo, è stato ucciso un signore che stava aiutando delle persone a costruirsi un riparo, con delle lamiere abbandonate (anche se non fosse stato materiale abbandonato, non cambierebbe niente). Nel giorno della Festa della Repubblica di 2 anni fa, è stato ucciso un bracciante, un sindacalista, un uomo». 

“[…] Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo.”

Così scrisse Jerry Essan Masslo, ucciso nel 1989 da una banda di criminali a Villa Literno. Aveva 30 anni ed era un rifugiato politico sudafricano che faceva il bracciante.

In decine di migliaia vivono costretti nel degrado delle baraccopoli e spesso ci muoiono. Sono migranti impiegati come braccianti dalla piana di Gioia Tauro fino alla Puglia e alla Campania che provano a sopravvivere ammassati in bidonville come quella di San Ferdinando, persone, in gran parte straniere e giovanissime. Come il ventinovenne Moussa Ba, morto il 15 febbraio 2019 proprio a San Ferdinando,  Suruwa Jaiteh, 18 anni dal Gambia, il 2 dicembre di due anni fa e il 27 gennaio 2018 Becky Moses, 26 anni, che veniva dalla Nigeria. In quella occasione un’altra donna di 27 anni rimase gravemente ferita e 200 tra tende e baracche rimasero distrutte dalle fiamme. Anche nel dicembre 2016 e nel gennaio 2017 altri incendi erano scoppiati nella baraccopoli sorta nell’area industriale e in quei casi le fiamme si erano limitate a colpire una sola baracca, ferendo gli occupanti. Nel marzo 2017 altri due giovani provenienti dal Mali sono morti nel violento incendio che ha avvolto e distrutto le loro e molte altre baracche nel gran Ghetto di Rignano, baraccopoli nelle campagne tra Rignano e San Severo popolatasi nell’arco di 20 anni per il flusso ininterrotto di migranti africani che, sfruttati dai caporali, cercano lavoro nelle campagne della Capitanata. Mamadou Konate e Nouhou Doumbia morirono perchè, fino all’ultimo, come centinaia di altri migranti, si rifiutavano di lasciare il ghetto dove era cominciato lo sgombero ordinato dalla Prefettura di Foggia. Solo pochi mesi prima, un altro ragazzo di 20 anni, Ivan Miecoganuchev, era morto carbonizzato nella baraccopoli chiamata ‘ghetto dei bulgari’, a causa di un incendio sviluppatosi anche in quel caso durante la notte e che in pochi minuti aveva divorato la sua e altre baracche. Il ‘ghetto dei bulgari’ si trova in località ‘Pescia’, tra Borgo Mezzanone e Borgo Tressanti, a una ventina di chilometri da Foggia. Sono sette gli incendi che negli ultimi anni si sono sviluppati all’interno delle baraccopoli della Capitanata dove si concentravano i migranti stagionali nei campi. Nel novembre scorso un altro giovane, Bakary Secka, era morto nel ghetto di Borgo Mezzanone a Manfredonia, baraccopoli abusiva sorta accanto al Centro richiedenti asilo politico. L’incendio era stato il secondo nella baraccopoli a distanza di due giorni. Andando più lontano nel tempo, nel 2013, un giovane di 20 anni originario del Senegal era morto nell’incendio divampato all’interno di una tendopoli improvvisata a Campobello di Mazara (Trapani), in cui viveva in condizioni disumane con altri 500 immigrati impegnati nella raccolta stagionale delle olive e nella vendemmia nella Valle del Belice.

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