L’intervento della presidente del Movimento Studenti Palestinesi in Italia all’assemblea nazionale del 9 novembre [Maya Issa]
Quest’assemblea risponde ad un’esigenza che tutti noi sentivano, ovvero quella di costruire una grande mobilitazione, una rete nazionale per la Palestina unitaria dove nessuno si senta escluso, ed una piattaforma comune con parole d’ordine chiare in grado di unire tutti ma soprattutto in grado di smascherare Israele e isolarla.
Riteniamo inoltre importante avere un approccio decoloniale dove la voce palestinese sia protagonista ma allo stesso tempo riconosciamo l’importanza che nel corso di tutto questo anno e non solo le mobilitazioni internazionali hanno avuto per la battaglia del nostro popolo.
Riconosciamo e non dimentichiamo la repressione che hanno subito tanti studenti che ci hanno messo la faccia come Tiziano, Stella e tantissimi altri.
Il popolo palestinese ha bisogno di tutti noi, ed è nostra responsabilità mettere da parte ogni divisione per porre fine al genocidio in Palestina e al massacro in Libano.
Come studenti palestinesi respingiamo le accuse che sono state rivolte a quest’assemblea, per chi ha seguito le piazze e le iniziative che abbiamo organizzato nel corso di quest’anno conosce benissimo la nostra politica e abbiamo sempre ribadito che la questione palestinese è una questione politica e non umanitaria.
Ma è anche vero che non possiamo dimenticare la lezione più grande di Vittorio Arrigoni, ovvero quella di restare umani.
Proprio per questo ci siamo sempre rifiutati di parlare di un pacifismo immaginario e utopico e di lasciare spazio alla politica, ciò che noi vogliamo è la libertà perché non può esserci pace senza giustizia, non può esserci pace sotto occupazione.
Noi non intendiamo scendere a nessun compromesso politico, dialettico o mediatico sulla pelle dei palestinesi e questo lo dobbiamo agli oltre 43mila martiri e ad un popolo che lotta da oltre 76 anni e non dal 7 ottobre per la propria autodeterminazione e per una Palestina libera-rifiutando la narrazione dei due stati per due popoli in quanto è una soluzione ipocrita, portata avanti da Stati Uniti, Ue e dai paesi arabi reazionari, firmatari degli “Accordi di Abramo” oltre che impraticabile dal punto di vista del diritto internazionale.
Affinché ci sia uno stato bisogna avere dei presupposti, quali: continuità territoriale, ad oggi invece vi sono migliaia di insediamenti illegali in Cisgiordania e una Gaza completamente divisa da essa, e dei confini ben precisi che oggi non abbiamo.
Sappiamo che Israele si è servita dei fallaci accordi di Oslo semplicemente per continuare ad espandersi impunemente nel tempo.
Sin dal 7 ottobre abbiamo risposto che la responsabilità non è di Hamas ma della comunità internazionale che non ha mai fatto nulla per prevenire il 7 ottobre.
Israele nell’ultimo anno ha dimostrato attraverso le dichiarazioni dei ministri criminali il loro intento nel voler continuare la pulizia etnica del popolo palestinese e voler espandere i propri confini al fine di raggiungere l’obiettivo della grande Israele.
Il governo israeliano di Netanyahu, Ben-Gvir, Smotrich & C. non potrebbero realizzare questo disegno criminale senza l’appoggio delle potenze occidentali che lo riforniscono costantemente di armi, munizioni e denaro, con in testa Stati Uniti, Germania e Italia.
Il nostro Paese, infatti, nonostante le bugie e l’ipocrisia del ministro Tajani, del ministro Crosetto e della premier Meloni, è il terzo fornitore al mondo di armamenti per il genocidio.
L’italia ha le mani sporche di sangue perché si è sempre astenuta alla risoluzione che chiede il cessate al fuoco, è complice perché è entrata direttamente in guerra contro i combattenti Heuthi con l’operazione Aspides, è complice attraverso la sua narrazione unilaterale, distorta e completamente schiacciata su Israele.
Abbiamo delle responsabilità e per questo rilanciano con forza non solo la mobilitazione ma anche la possibilità di costituirci tramite una piattaforma per promuovere azioni sinergiche e dislocate su tutto il territorio nazionale in maniera tale da non lasciare respiro e isolare completamente Israele e proprio per questo: dobbiamo costruire campagne ben mirate e azioni di boicottaggio contro l’industria bellica, e un deciso embargo sulle armi.
Bisogna boicottare Israele a livello accademico, economico diplomatico e politico.
Affinché vengano fatti entrare gli aiuti umanitari a Gaza.
Affinché Israele venga effettivamente processato davanti alla corte penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità.
Per costruire una narrazione diversa sulla Palestina e diffondere materiale che mostri il vero volto del sionismo
Dobbiamo lavorare affinché sia cancellato l’accordo di associazione Ue-Israele.
Per far ritirare i cittadini israeliani con cittadinanza italiana che stanno prendendo parte al genocidio a Gaza e chiedere che vengano processati.
Affinché vengano liberati tutti i prigionieri palestinesi compreso Anan, prigioniero palestinese qui in Italia.
Affinché sia riconosciuto il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e tutti i popoli oppressi.
Affinché sia riconosciuto il diritto al ritorno di noi rifugiati palestinesi
Affinché venga fatta giustizia per tutti i martiri palestinesi.
Voglio chiudere dicendo che Gaza non è stata distrutta, che la Palestina e il Libano non sono distrutti.
La Palestina ci insegna la resistenza, ci insegna che tutto il mondo è occupato e la Palestina è libera.
https://bresciaanticapitalista.com/2024/11/12/in-morte-di-licia-pinelli/
LA MORTE DI ALTRI DUE PRIGIONIERI PALESTINESI RICORDA QUELLA DEL MEDICO Adnan al-Bursh, VITTIMA DELLA TORTURA
La lista si allunga. Non solo a Gaza e in Cisgiordania, ma anche nelle carceri israeliane.
Altri due prigionieri palestinesi – tra il 14 e il 15 novembre – sono deceduti a causa della detenzione, dei maltrattamenti e degli abusi.
Samih Suleiman Muhammad Aliwi (61anni) e Anwar Shaaban Muhammad Aslim (44). Per il suo avvocato, Aliwi è rimasto vittima di “torture, negliglenza sanitaria e per essere stato sotto-alimentato”.
Il suo assistito gli aveva confidato che “gli erano state rifiutate le cure, di aver subito aggressioni e umiliazioni”. Inoltre il detenuto era diinuito di circa 40 chili dall’ultima visita.
Uno scenario che riporta alla mente quanto era accaduto il 19 aprile a Adnan al-Bursh, chirurgo dell’ospedale Al-Shifa di Gaza.
Fin dall’inizio della guerra, il medico (50 anni, responsabile della medicina ortopedica dell’ospedale al-Shifa) informava e denunciava pubblicamante in merito alle terribili ferite che aveva dovuto curare in condizioni sempre più proibitive. Denunciando anche il brutale assedio subito dal suo ospedale nel novembre 2023, così come la conseguente forzata evacuazione.
Divenuto un simbolo per il suo impegno, anche dopo aver raggiunto un altro ospedale, aveva continuato a documentare e denunciare (postando immagini sui social) quanto avveniva. In particolare la disastrosa situazione sanitaria dovuta ai sistematici attacchi israeliani nei confronti di ospedali e ambulatori.
Tra gli altri, gli attacchi contro un ospedale di Beit Lahia, dove i bombardamente israeliani avevano ucciso una dozzina di pazienti.
Arrestato dall’Idf (insieme ad altri operatori sanitari e pazienti) in dicembre mentre lasciava l’ospedale indonesiano Al-Awda (ugualmente sotto assedio), veniva rinchiuso nel campo di prigionia (in cui si sospetta venga praticata la tortura) della base militare di Sde Teiman. Successivamente (aprile 2024) era stato trasferito nella sezione 23 del carcere di Ofer, non lontano da Gerusalmme.
Stando a quanto riferirono altri detenuti, al momento del suo arrivo presentava visose ferite in varie parti del corpo ed era completamente nudo dalla vita in giù (presumibilmente era statao violentato). Gettato in mezzo al cortile, incapace di sollevarsi, il Dr Adnan Al-Bursh era stato aiutatato da un altro detenuto che lo aveva accompagnato alla sua cella.
Ma nel giro di qualche minuto, dopo aver lanciato grida di dolore, era deceduto. Un altro nome da aggiungere alla lista degli operatori sanitari (ormai oltre 500) uccisi nella Striscia dall’inizio dell’invasione israeliana. Nelle stesse ore moriva un altro detenuto palestinese, Ismail Khader (33 anni). Sempre – stando alle dichiarazioni della Commissione per gli affari dei prigionieri- a causa “dei pestaggi e delle torture subite”.
Molti dei palestinesi arrestati (qualche centinaio) sono rinchiusi in basi militari e campi di detenzione nel Neghev. Qui, come è stato denunciato anche da ong israeliane per i diritti umani, vengono tenuti in condizioni degradanti. A causa delle torture e degli abusi alcuni avrebbero perso la vita (erano 27 quelli accertati ancora in aprile). Per protestare contro tale situazione, sempre in aprile, militanti della sinistra israeliana avevano organizzato una manifestazione davanti alla base dell’aviazione di Sde Taiman (dove era stato rinchiuso e torturato Adnan al-Bursh). Qui, come denunciavano ex detenuti e medici, si sarebbero verificati i fatti più gravi. Alcuni avvocati israeliani che avevano avuto modo di conoscerla, non esitavano nel paragonarla a Abu Ghraib e Guantanamo.
Gianni Sartori
QUALCUNO SI RICORDA ANCORA DEL SAHARA OCCIDENTALE
Gianni Sartori
Salvo qualche rara eccezione (v. Luciano Ardesi su Nigrizia), sembrava proprio che del popolo saharawi fossero rimasti in pochi ad occuparsene.
Ma qualche recente notizia potrebbe stare a indicare una – per quanto piccola – inversione di tendenza.
Innanzitutto la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che il 4 ottobre 2024 ha rimesso in discussione gli accordi commerciali tra UE e Marocco del 2019 in materia di pesca e prodotti agricoli. Accordi, ca va sans dire, conclusi senza il consenso della popolazione del Sahara Occidentale, tantomeno del Fronte Polisario (rappresentanza politico-militare della popolazione saharawi) .
E quindi “in violazione dei principi di autodeterminazione” dal momento che riguardavano territori assegnati al Sahara occidentale.
Sentenza che dovrebbe entrare in vigore entro dodici mesi e che dovrebbe comportare una perdita secca di 52 milioni di euro all’anno per Rabat. La cifra corrispondente a quanto l’Ue aveva assegnato al Marocco per consentire l’attività dei pescherecci europei, soprattutto spagnoli, al largo delle coste del Sahara occidentale.
Altra buona notizia, la ripresa di iniziative di solidarietà con i dimenticati prigionieri politici saharawi. Con il sostegno di numerose organizzazioni (tra cui la Confédération Nationale du Travail, anarcosindacalista) venerdì 22 novembre si è tenuto alla Bourse de Travail di Tolosa un meeting in sostegno alle vittime saharawi della repressione e per la effettiva decolonizzazione del Sahara Occidentale. Tra i relatori, Claude Mangin (militante per i diritti umani e compagna di un prigioniero saharawi), Mokhtar Sidi (presidente dell’associazione dei Saharawi di Tolosa) e Nayem Uld Enna (presidente dell’associazione dei Saharawi di Mountauban). Con una folta presenza di famiglie della diapora saharawi.
Invece giovedì 21 novembre le “Donne Democratiche di Mezzago” con il patrocinio di “Rete Saharawi” hanno organizzato una cena saharawi (anche senza carne) come autofinanziamento per le iniziative di solidarietà.
Tra i partecipanti, Riccardo Noury di Amnesty International, Fatima Mahfud in rappresentanza del Fronte Polisario, il giornalista Mohamed Dihani e Renato Ferrantini, freelance e autore della mostra fotografica “Saharawi, oltre l’attesa”
Boccate di ossigeno, direi, per gli oltre 170mila saharawi ancora nei campi profughi dove sopravvivono in condizioni difficili. Con l’unico sostegno effettivo dell’Algeria. Mentre nella loro terra si mantiene (ormai da 17 anni) l’equivoco del cosiddetto “piano di autonomia” del Marocco. Una forma per quanto subdola di colonialismo.
Sembra invece destinata ad alimentare dubbi e perplessità la decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu in merito alla missione Minurso il cui mandato scadeva alla fine di ottobre.
Decidendo di rinnovarla per un altro anno (fino al 31 ottobre 2025), si è forse voluto rimandare una scelta definitiva tra le due opzioni formulate da Staffen de Mistura (inviato del segretario generale dell’Onu): la spartizione del Sahara occidentale in base agli accordi del 1975 tra Marocco e Mauritania, oppure il piano di autonomia formulato da Rabat nel 2007.
Senza dimenticare la recente adesione del presidente francese Macron al “piano di autonomia” di Rabat. Per una soluzione politica del conflitto, ma a tutto vantaggio del Marocco e a spese dei saharawi.
Gianni Sartori