Pochi secondi smontano la versione ufficiale e confermare la tendenza dell’Arma a nutrire e coprire la cultura dell’abuso
Immagini e frasi choc trasmesse in prima serata, gettano una nuova luce sull’incidente avvenuto il 24 novembre scorso al quartiere Corvetto di Milano, costato la vita al 19enne egiziano Ramy Elgaml. Legali dei familiari della vittima parlano ora di “omicidio volontario”. Nelle immagini trasmesse dal TG3, riprese da un’auto dei carabinieri, e agli atti degli inquirenti, si vede un primo impatto tra la gazzella dell’Arma e lo scooter sul quale ci sono due ragazzi: Ramy e il conducente Fares Bouzidi, 22enne tunisino. Dopo un primo impatto, il mezzo a due ruote non cade. E nell’audio si sentono, in successione, diverse frasi choc dei carabinieri. Una prima (“vaffanculo non è caduto!”), pronunciata dopo lo speronamento. Una seconda frase simile, nel corso dell’inseguimento: “Chiudilo, chiudilo!… no, merda… non è caduto”. Poi, alla fine della corsa tra le strade del centro di Milano, quando sembra effettivamente esserci un ulteriore contatto, come testimoniano le immagini riprese questa volta da una telecamera del Comune. I due ragazzi perdono il controllo del mezzo e a quel punto i carabinieri avvertono via radio che i due “sono caduti”, in via Quaranta. E un loro collega risponde, sempre via radio, “bene”.
Agli atti degli inquirenti ci sono anche le immagini di due carabinieri che, dopo l’incidente, si avvicinano a un giovane sul marciapiede, che alza le mani in alto. Si tratta di Omar, il testimone che ha detto di aver ripreso tutto, aggiungendo che i carabinieri gli avrebbero intimato di cancellare il filmato. I legali dei familiari di Ramy, gli avvocati Debora Piazza e Marco Romagnoli, hanno commentato a caldo le immagini inedite: a loro avviso si tratta di “omicidio volontario” e non stradale. Già nel dicembre scorso, la Procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati – contestando, a vario titolo, falso e frode processuale e depistaggio – almeno due carabinieri, mentre il militare alla guida della gazzella era già stato iscritto per omicidio stradale, come il 22enne che conduceva lo scooter. In particolare, si indaga per depistaggio in merito alla presunta cancellazione del video del testimone, quello ripreso dalle telecamere. Dopo l’incidente, a novembre, il quartiere Corvetto ha vissuto notti di tensione, con atti di vandalismo compiuti da qualcuno che chiedeva giustizia per il giovane egiziano morto. “La presunzione di innocenza deve essere applicata anche ai carabinieri” aveva dichiarato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, proprio commentando i fatti del 24 novembre mentre i giornali di estrema destra provavano a criminalizzare gli amici di Ramy, i ragazzi di origine straniera che hanno protestato per le vie del quartiere milanese di Corvetto. Il più feroce di tutti, come fosse una sorta di portavoce del senso comune della destra, è stato ancora una volta Vittorio Feltri, ora consigliere regionale di FdI: “Non frequento le periferie, non mi piacciono – ha detto Feltri il 30 novembre dai microfoni de La Zanzara, specializzati in questo tipo di trasmissioni – Sono caotiche, brutte e soprattutto piene di extracomunitari che non sopporto. Basta guardarli, vedi quello che combinano qui a Milano, come fai ad amarli? Gli sparerei in bocca. Non mi vergogno affatto di considerare i musulmani delle razze inferiori”. Feltri, come accadde per Placanica, presunto killer di Carlo Giuliani a Genova nel 2001, s’è offerto di pagare l’avvocato al carabiniere che è stato indagato.
Servono pochi secondi, e ancor meno parole, a smontare la versione ufficiale dei carabinieri e a indurre a chiedersi se ci sia una tendenza nell’Arma a nutrire e coprire la cultura dell’abuso. L’abuso come metodo sistematico di intervento nelle criticità metropolitane, nelle operazioni di pubblica “sicurezza” al di là del solco – materiale o virtuale – che in ogni città separa i più poveri, i più disagiati dai quartieri “per bene”. L’abuso come metodo e il depistaggio come modalità di narrazione, nelle “piccole” tragedie come l’omicidio di Ramy così come nelle grandi stragi di Stato.
Le immagini trasmesse dal Tg3 la sera di martedì 7 gennaio forniscono materiale importante, forse dirimente, per un processo che comunque sarà difficile. Sappiamo dai tempi del processo Diaz che processare un membro delle forze dell’ordine è doppiamente difficile perché da un lato si erge un muro di omertà che se indossi una divisa sei educato a chiamare spirito di corpo, e dall’altro si tende a criminalizzare la vittima come nei processi per stupro.
Però lo scoop del Tg3 fornisce anche uno spaccato inquietante sull’approccio, sulle regole di ingaggio, come si dice in caso di guerra e questa non è altro che una variante della guerra ai poveri. Il linguaggio adoperato dai militari in servizio rivela lo schema del “noi” contro “loro”, dove “loro” sono quelli più deboli e senza divisa, i nemici da combattere, da abbattere. Quando il gioco si fa duro, insomma, i duri incominciano a giocare perché sembrano addestrati a fare il lavoro sporco in nome e per conto della società dei più garantiti.
Questa guerra a bassa intensità va in scena ogni giorno e ogni notte in territori sempre più logorati dagli effetti dello smantellamento del welfare, della gentrification e della polverizzazione dei legami sociali indotta dalla combinazione di precarizzazione e privatizzazioni. Senza nemmeno le briciole da dare in pasto a questo tessuto sociale resta la logica delle zone rosse, sperimentate da Piantedosi proprio in questo periodo, del ddl 1660, il cosiddetto decreto paura, in discussione alle Camere, della guerra interna, quel diritto penale del nemico affinato dai governi che si sono succeduti, indipendentemente dalla loro natura di destra o di “sinistra”.
Singolare che a squarciare il velo di Maya, stavolta, siano state le immagini e le parole catturate da una webcam installata sulla gazzella e diffuse da una tv pubblica mai così infarcita di programmi apologetici – sia di fiction che documentaristici – sui “nostri ragazzi” in divisa.
Il recente corteo nazionale del 14 dicembre, che si è snodato per Roma contro il ddl 1660, rivela che esistono degli anticorpi e allude a uno spazio politico conflittuale che va coltivato per risignificare il concetto di sicurezza e disarmare le parole, per chiudere il ciclo nefasto delle emergenze e dimostrare che non c’è nulla di ineluttabile.
Dopo la diffusione delle immagini Ilaria Cucchi, senatrice di AVS, sorella di Stefano Cucchi, ucciso da due carabinieri dopo un violentissimo pestaggio nell’ottobre 2009, ha scritto una lettera al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Salvatore Luongo. I responsabili dell’omicidio di suo fratello sono stati condannati con sentenza definitiva a 12 anni di reclusione ma dopo 14 anni di processi (ora 16), oltre 160 udienze e 5 anni con imputati ingiustamente accusati – gli agenti della Polizia Penitenziaria – grazie a depistaggi «che fin da subito vennero architettati ed attuati dalla oramai tristemente nota “scala gerarchica”», scrive Cucchi, dei quali si è occupato proprio Luongo.
«Le chiedo la sospensione e conseguente destituzione dei carabinieri che hanno messo negli atti ufficiali una ricostruzione dell’accaduto che mi pare proprio incompatibile con quanto documentato dalle immagini. Sono ben lontana, mi creda, dall’invocare la condanna dell’autista della gazzella coinvolta direttamente nell’incidente. Ritengo tuttavia, che, fin da ora, chi ha ricostruito i fatti in modo così diverso dalla realtà e chi avrebbe ordinato ad un testimone di cancellare il filmato dell’incidente girato col suo cellulare, non meriti più di indossare la vostra onoratissima divisa. Mi piacerebbe incontrarla per raccontarle di persona quanto fanno male quei comportamenti alla credibilità dell’Istituzione che Lei oggi rappresenta – sottolinea Cucchi – Vorrei farle capire quanto hanno reso difficile la vita della mia famiglia che ne è rimasta irrimediabilmente logorata… Vorrei tanto incontrarla per raccontarle quanto male facciano alle persone ed all’Arma quelle ricostruzioni addomesticate, quelle verità nascoste, quei depistaggi. Peggio dei fatti dai quali ci si vuole difendere in modo così terribilmente sbagliato …».