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L’accusa di antisemitismo come una clava contro la verità

Come la destra pro-Israele prova a schiacciare la solidarietà con la Palestina. I sentimenti ora hanno la meglio sulla verità [Ash Sarkar]

La storia vi è già nota. Il 7 ottobre 2023, i militanti di Hamas sono usciti dal territorio palestinese di Gaza (chiuso da una barriera costruita da Israele a nord e a est, da un confine con l’Egitto a sud e dal Mar Mediterraneo a ovest). Ribattezzati Operazione Al-Aqsa Flood, gli attacchi hanno ucciso circa 1.200 persone e hanno coinvolto circa 250 persone prese in ostaggio. In una risposta rapida e indiscriminata, Israele ha tagliato elettricità, cibo, medicine e carburante a tutti i due milioni di persone che vivono a Gaza. Scuole, università, ospedali, case e infrastrutture sono state distrutte. Al momento in cui scriviamo, il bilancio delle vittime a Gaza ha superato i 40.000 palestinesi. Altre migliaia giacciono sepolte sotto le macerie, non ancora contate. Dal 7 ottobre, una media di dieci bambini palestinesi al giorno hanno perso una o entrambe le gambe a Gaza, con amputazioni che spesso avvengono senza anestesia. Studiosi dell’Olocausto, esperti di diritti umani e gli Stati del Sudafrica e della Spagna hanno sostenuto che la guerra in corso a Gaza soddisfa la definizione legale di genocidio. Sono d’accordo con loro*.

L’immensa perdita di vite umane a Gaza non avviene nel vuoto: dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, e prima degli attacchi del 7 ottobre, centinaia di migliaia di palestinesi sono stati sfollati con la forza, milioni sono stati soggetti all’occupazione militare israeliana e decine di migliaia sono stati uccisi.

Tra il 2000 e il 2014, secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi sono stati artefici di tredici morti su quindici nel conflitto.

Ma in Occidente è successa una cosa strana. Nonostante gli evidenti crimini di guerra commessi durante l’offensiva militare di Israele a Gaza, i media negli Stati Uniti e nel Regno Unito si sono concentrati senza sosta sul fatto che le proteste contro queste atrocità fossero antisemite. Ore di trasmissione e interminabili colonne di giornale sono state dedicate alla questione se lo slogan “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” fosse un appello allo sterminio degli ebrei che vivono in Israele. L’American Jewish Committee ha condannato la frase come “un grido d’appello per i gruppi terroristici e i loro simpatizzanti” nel suo glossario “Translate Hate”; nel Regno Unito, il Board of Deputies, il Jewish Leadership Council e il Community Security Trust hanno denunciato lo slogan per “la sua insinuazione di atti di omicidio contro il popolo ebraico”. Anche quando è stato esplicitamente inquadrato come un appello per una soluzione a due Stati, il semplice uso delle parole “dal fiume al mare” è stato condannato come antisemita: un deputato laburista, Andy McDonald, ha subito la censura per aver detto: “Non ci fermeremo finché non avremo giustizia, finché tutti i popoli, israeliani e palestinesi, tra il fiume e il mare non potranno vivere in libertà pacifica”.

Lo slogan “dal fiume al mare” richiede intrinsecamente l’eliminazione del popolo ebraico in Israele o minacce alla più ampia diaspora? In un contesto di protesta, lo slogan “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” è generalmente inteso come una richiesta di pieni diritti politici per i palestinesi della Cisgiordania occupata, di Israele e di Gaza. È incredibilmente comune nelle manifestazioni pro-palestinesi vedere un blocco ebraico, dove i manifestanti ebrei cantano le parole insieme ai loro compagni di marcia. Anche interpretandola nel senso, come fa l’AJC, che simboleggia “il controllo palestinese sull’intero territorio dei confini di Israele”, non significa che sia un appello al genocidio – a meno che non si creda che ebrei e palestinesi non possano esistere alla pari nello stesso Paese. Né condona gli atti di omicidio contro gli ebrei della diaspora. Come sostiene Noah Zatz, professore di diritto e studi sul lavoro alla UCLA School of Law, è “bizzarro leggere un appello a rovesciare la supremazia ebraica sancita dallo Stato in Israele/Palestina come un’approvazione del genocidio contro gli ebrei israeliani; è necessario un ulteriore salto per raggiungere gli ebrei come me che vivono negli Stati Uniti, a più di un oceano di distanza in un contesto geopolitico completamente diverso”. In effetti, nell’agosto del 2023, un tribunale olandese ha stabilito che lo slogan “si riferisce allo Stato di Israele ed eventualmente alle persone con cittadinanza israeliana, [ma non] agli ebrei per la loro razza o religione”. In breve, non è antisemita, né un invito alla violenza di alcun tipo.

Ma la verità non ha importanza quando l’“esperienza vissuta” fa capolino. L’esperienza vissuta è una di quelle idee che sono diventate particolarmente in voga negli ultimi anni. In breve, si riferisce alla conoscenza personale del mondo acquisita attraverso l’esperienza diretta. Non è una cosa negativa ed è una fonte di informazioni preziose. Il ricorso a esperienze vissute e di prima mano del mondo ha portato a lavori importanti in diversi campi. L’esperienza vissuta è stata il punto di partenza per la ricerca sugli impatti sulla salute fisica dei rilassatori chimici per capelli sulle donne nere, per la centralità dell’esperienza del paziente nella cura della salute mentale, e probabilmente il movimento #MeToo è stato il prodotto di donne che hanno condiviso le loro esperienze vissute di molestie e violenze sessuali.

Ma il modo in cui questo spesso si traduce nella pratica è che l’esperienza vissuta viene presentata come una forma inattaccabile di autorità morale: quando una persona fa un’affermazione sul mondo e dice che si tratta della sua “esperienza vissuta”, non si può mettere in dubbio che ciò che sta dicendo sia effettivamente vero. Se per la vostra “esperienza vissuta” un attivista per il clima che dice la parola “fregna (cunt, nel testo inglese)” è minaccioso, o che una lezione di yoga per soli bianchi è traumatica, chi può dire che non lo sia? E se ci si identifica come vittime in qualche modo, chi può dire che non sia così?

Il Board of Deputies, il Jewish Leadership Council e il Community Security Trust hanno incolpato “dal fiume al mare” di aver contribuito “all’attuale senso di paura e intimidazione delle nostre comunità”, e hanno chiesto che la polizia e il Crown Prosecution Service esaminino se “questo canto raggiunge la soglia di un reato penale”. Nel momento in cui queste organizzazioni sostenevano che lo slogan aveva creato un clima di paura e intimidazione nel Regno Unito, a Gaza erano stati uccisi 3.785 palestinesi dal 7 ottobre – più di tre volte il bilancio delle vittime dei crimini di guerra commessi da Hamas all’inizio di quel mese, e un bilancio che da allora è decuplicato. Non ho alcun dubbio che alcune persone – in particolare quelle che considerano Israele come una garanzia di sicurezza per gli ebrei nella diaspora – siano messe a disagio dal canto. Potrebbero persino sentirsi minacciati, e queste emozioni sono sincere. Ma questo non significa che debbano avere l’ultima parola sulla criminalizzazione di un discorso del genere. Inoltre, la rilevanza di questo dibattito in un periodo di bombardamenti militari indiscriminati su uno dei territori più densamente popolati del mondo ci dice qualcosa di inquietante: che l’esperienza vissuta di una comunità minoritaria può essere strumentalizzata da attori politici per nascondere ingiustizie brutali e sanguinose.

A volte, le affermazioni di essere minacciati sono così sproporzionate che è difficile prenderle sul serio. Prendiamo ad esempio quello che è successo in un prestigioso istituto di ricerca scientifica di Londra. Nel marzo 2024, il personale del Francis Crick Institute ha organizzato una vendita di torte per raccogliere fondi a favore dell’associazione Medical Aid for Palestinians. Quello che ne è seguito è stata una guerra con i mezzi delle risorse umane: la direzione ha ricevuto una serie di reclami da parte di persone che sostenevano che la “presunta vendita pacifica di torte” li aveva fatti sentire insicuri. Non sono state segnalate minacce specifiche il giorno della vendita. A meno che non si soffra di una forma particolarmente aggressiva di diabete, nessuna persona di buon senso dovrebbe sentirsi intimidita da una fetta di torta al limone. Ma se la sostanza delle lamentele era sciocca, le conseguenze sono state molto più gravi. Al personale della Francis Crick è stato inizialmente vietato di raccogliere fondi per Gaza e gli è stato detto che condividere informazioni su Gaza costituiva una violazione del codice di condotta dei dipendenti.

Non è la prima volta che i sostenitori di Israele prendono in prestito dal manuale della politica identitaria liberale per reprimere le espressioni di solidarietà con i palestinesi. In effetti, presentare il vittimismo palestinese come una minaccia o un insulto al vittimismo ebraico è una tattica fondamentale per promuovere la causa. Nel febbraio 2023, le denunce presentate da UK Lawyers for Israel (UKLFI) hanno fatto sì che il Chelsea and Westminster Hospital rimuovesse una mostra di opere d’arte create da bambini palestinesi. L’UKLFI ha affermato che la mostra di piatti decorativi – che includeva raffigurazioni di rami d’ulivo, pescatori e vita quotidiana a Gaza – ha fatto sentire i pazienti ebrei “vulnerabili, molestati e vittimizzati”. Non so voi, ma io non so cosa sia più deprimente: che le persone si siano davvero sentite “vittimizzate” dalle opere d’arte dei bambini, o che un’organizzazione lobbistica faccia cinicamente leva sull’antisemitismo per cancellare l’esposizione pubblica di un progetto che umanizza i palestinesi. In entrambi i casi, si tratta di una mossa resa possibile dall’abbandono di ciò che consideriamo dannoso, dall’impatto materiale alla sensazione di essere una vittima.

Alcuni direbbero che non ho il diritto di dire nulla di tutto ciò, che spetta ai gruppi emarginati definire la propria oppressione. Ma come hanno dimostrato i sostenitori di Israele, l’oppressione può essere definita in modi politicamente vantaggiosi. La definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (adottata dal partito laburista del Regno Unito, da diverse città degli Stati Uniti e, secondo la stessa IHRA, da trenta Stati a livello internazionale) ne è un esempio. Quasi la metà degli esempi di antisemitismo riportati nella definizione di lavoro riguarda la critica allo Stato di Israele. Secondo la definizione, è inaccettabile dire che “l’esistenza di uno Stato di Israele è un’impresa razzista”, anche se si è ampiamente contrari all’ideologia degli etnostati. Più di venti organizzazioni della società civile palestinese hanno condannato la definizione come un tentativo di “cancellare la storia palestinese, demonizzare la solidarietà con la lotta palestinese per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza, sopprimere la libertà di espressione e proteggere il regime di estrema destra di occupazione, colonialismo e apartheid di Israele da misure efficaci di responsabilità”. Quale minoranza, dunque, può definire i parametri di una critica accettabile a Israele? A un certo punto, dobbiamo ammettere che l’identità è una forma di autorità peggiore della verità.

Il modo in cui le persone si sentono è importante. Ma non è importante quanto un genocidio, una pulizia etnica o i crimini di guerra in corso. Non è importante quanto ciò che sta realmente accadendo. Il problema della sinistra è che, assorbendo gran parte dell’ossessione del liberalismo per la soggettività e l’individuo, abbiamo reso difficile sostenere che esiste una gerarchia del danno – e che la realtà materiale al di fuori della nostra esperienza conta più di come la interpretiamo.

Questo è un estratto di Minority Rule: Adventures in the Culture War di Ash Sarkar (Bloomsbury). In uscita in Gran Bretagna.

*Nota a piè di pagina: in Minority Rule, definisco le azioni di Israele a Gaza dal 7 ottobre 2023 un genocidio. Al momento in cui scrivo, almeno 1.410 famiglie palestinesi sono state cancellate dal registro civile di Gaza. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, altre 3.463 famiglie di Gaza hanno perso tutti i loro membri tranne uno. Le Nazioni Unite definiscono il genocidio come “un crimine commesso con l’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in tutto o in parte”.

Ritengo che la “politica concertata di Israele per distruggere il sistema sanitario di Gaza” (si veda il Rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, e Israele, p. 18), l’uso da parte di Israele della “fame come arma da guerra” (si veda il Rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, e Israele, p. 18). ), l’uso da parte di Israele della “fame come arma di guerra” contro i civili palestinesi (si veda il Rapporto del Comitato speciale per indagare sulle pratiche israeliane che incidono sui diritti umani del popolo palestinese e degli altri arabi dei territori occupati, p. 2) e gli attacchi aerei israeliani sulle zone umanitarie designate (si veda qui e qui), costituiscono atti di genocidio. Inoltre, è mia opinione (e del team legale del Sudafrica, nella presentazione del loro caso contro Israele alla Corte internazionale di giustizia) che le dichiarazioni del presidente israeliano Isaac Herzog, del primo ministro Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant dimostrino l’intento genocida: vedi qui, p. 60. Sono d’accordo con la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese che un’analisi delle politiche di Israele, dei modelli di violenza e del loro impatto sul popolo palestinese di Gaza raggiunge la soglia del genocidio (vedi Anatomia di un genocidio: Rapporto del relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967. Ma al di là del procedimento legale, credo che tutti noi abbiamo l’obbligo morale di chiamare ciò che sta accadendo con il suo giusto nome, anche se i tribunali internazionali devono ancora emettere il loro verdetto finale. Non c’è bisogno del permesso di nessuno per parlare secondo la propria coscienza.

Ash Sarkar è redattore di Novara Media.

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