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Archeologia sionista: scavare per la patria

Intervista con la storica Frédérique Schillo e il giornalista Marius Schattner [Joseph Confavreux]

“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”. La famosa frase tratta da 1984 di George Orwell potrebbe essere applicata letteralmente alla disciplina dell’archeologia così come si è sviluppata a Gerusalemme dal XIX secolo a oggi.

Ma il libro Sous tes pierres, Jérusalem, recentemente pubblicato dalle Editions Plon e scritto dal giornalista Marius Schattner e dalla storica Frédérique Schillo, dimostra che il rapporto tra fede e scienza, o tra mito e storia, non può essere ridotto a usi politici semplicistici e omogenei.

L’archeologia sionista, prima della fondazione dello Stato di Israele, e poi quella israeliana dal 1948 in poi, hanno naturalmente cercato di dimostrare l’anteriorità della presenza ebraica in Palestina. L’archeologia palestinese, quando è esistita, si è spesso ridotta a “scavi senza terra” e non è stata esente da pregiudizi ideologici. L’archeologia “biblica”, condotta in particolare dagli inglesi e dai francesi a partire dal XIX secolo, poteva essere intessuta di motivazioni che combinavano dimensioni imperiali e preoccupazioni religiose.

L’archeologia nella città “tre volte santa” è stata quindi un’arma ideologica a doppio taglio. Può ovviamente essere usata per creare narrazioni nazionaliste o religiose ad hoc. Ma può anche rivelare la storica permeabilità culturale tra popolazioni che il presente contrasta. Può persino mettere in discussione le narrazioni bibliche che si suppone siano alla base dei diritti rivendicati per la Palestina.

Sono stati i ricercatori israeliani Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman a lanciare l’attacco più clamoroso alla storicità della Bibbia, per quanto riguarda i racconti della Genesi, dell’esodo dall’Egitto e dei regni di Davide e Salomone. Questo è stato messo in discussione da uno studio condotto nella Cisgiordania occupata, dopo la sua conquista da parte dell’esercito israeliano…

Intervista a Marius Schattner, coautore di questo libro imponente ma accessibile, scritto sotto forma di casi di studio famosi – come i Rotoli del Mar Morto – o più riservati, in cui ci si imbatte in ricercatori assassinati in circostanze oscure o in alti ufficiali con la passione per l’archeologia.

Mediapart: L’archeologia, come la storia, è una disciplina con una dimensione fortemente politica e nazionale. È possibile svolgere un’archeologia veramente scientifica in una città contesa come Gerusalemme?

Marius Schattner: Sì e no. Bisogna distinguere tra il lavoro in sé, che si basa su metodi scientifici, tra i più avanzati, e le interpretazioni dei risultati da parte degli archeologi e soprattutto delle istituzioni – statali, private e religiose – che li finanziano e hanno i loro programmi. Il libro mette bene in evidenza che le loro motivazioni non sono strettamente scientifiche, anche se questo non mette in discussione il valore delle scoperte. Questo libro non è un atto d’accusa contro i ricercatori accusati di pregiudizio, ma piuttosto un invito a vigilare, in questo campo come in altri.

Nelle varie fasi dell’archeologia ebraica e poi israeliana che lei descrive nel suo libro, l’obiettivo è sempre stato quello di dimostrare l’esistenza di una presenza antica che desse agli ebrei un diritto su questa terra?

È stato certamente così fino ai primi anni Ottanta. Oggi è molto meno vero, anche se l’archeologia viene ancora troppo spesso utilizzata per giustificare un’annessione di fatto, in nome di una presunta anteriorità e del legame ancestrale del popolo ebraico con questa terra.

Se prendiamo il caso del sito della “Città di Davide”, a sud della Città Vecchia di Gerusalemme, gli scavi sono finanziati dall’associazione ultranazionalista El-Ad, la più ricca delle ONG israeliane, che non si occupa solo di archeologia, ma anche dell’esproprio delle case palestinesi a Silwan e dell’insediamento di coloni nel cuore di questo quartiere palestinese. Ci sono esempi di scavi archeologici e colonizzazione che vanno di pari passo?

Sì, ci sono molti esempi, come Qumran, dove sono stati scoperti i Rotoli del Mar Morto. Il dipartimento di archeologia del governo israeliano ha individuato 3.100 siti di scavo o potenziali siti di scavo nella Zona C. In altre parole, nelle aree sotto il controllo esclusivo di Israele, che copre il 60% della Cisgiordania, esclusa Gerusalemme Est annessa. Solo un piccolo numero di questi siti – ma i più famosi – sono utilizzati per fondare insediamenti e giustificarne l’espansione, come a Shiloh, nel nord della Cisgiordania, o nella regione di Hebron, nel sud.

È mai esistita un’archeologia palestinese o la negazione territoriale a cui sono sottoposti i palestinesi l’ha resa impossibile?

Esiste come meglio può, al di fuori di Gerusalemme e dell’Area C. Ma incontra enormi difficoltà, non tutte imputabili all’assenza di sovranità. In particolare, il furto di antichità, un’attività tradizionale degli abitanti dei villaggi palestinesi, incrementata dalla disoccupazione e dalla povertà, ma anche incoraggiata da una legislazione israeliana molto permissiva. L’Autorità palestinese di Mahmoud Abbas, screditata agli occhi della popolazione, si sta dimostrando incapace di porre fine a questo flagello nelle aree che in linea di principio sono sotto il suo controllo.

In cosa si differenzia l’archeologia palestinese da quella israeliana?

Oltre alla mancanza di risorse, c’è una maggiore enfasi sul periodo islamico e ottomano, trascurato dall’archeologia biblica tradizionale, e una tendenza a sminuire il passato ebraico a favore di quello cananeo. Lo sfruttamento della storia e dell’archeologia a fini politici esiste anche da parte palestinese, come dimostrano le dichiarazioni di Yasser Arafat che afferma che il Monte del Tempio si trova nello Yemen. Ma le risorse israeliane e palestinesi in quest’area sono incomparabili. I palestinesi sono costretti a effettuare “scavi senza terra”.

Il mosaico della sinagoga di Beit Alpha, risalente al VI secolo d.C., contiene una rappresentazione del dio greco Helios, che contraddice la visione del rigido aniconismo ebraico. Come vede Israele le influenze culturali religiose tra mondi considerati separati?

Per gli scienziati, questo non rappresenta un problema. Non è un tabù. Per quanto riguarda gli altri, preferiscono non darvi troppa importanza, né nei media né nelle scuole. Va da sé che nei libri di testo degli istituti ultraortodossi, che insegnano a centinaia di migliaia di alunni, queste rappresentazioni non sono mai incluse.

Possiamo basarci su queste impregnazioni reciproche tra il passato ebraico e quello di altre popolazioni per immaginare, come lei scrive, una “archeologia che costituisca un ponte tra israeliani e palestinesi che si contendono la stessa terra” o “almeno una depoliticizzazione di questa scienza affinché cessi di essere dirottata e usata come arma in un conflitto sempre più mortale”?

Questa idea è stata avanzata circa trent’anni fa, dopo la firma degli accordi di Oslo, da un gruppo di archeologi israeliani e palestinesi. Ebbe lo stesso destino di quegli accordi. Oggi possiamo solo esprimere un desiderio. Ma questo sogno è ancora più difficile da realizzare oggi di quanto non lo fosse quando abbiamo scritto il libro.

Come vedono i sionisti religiosi, la cui influenza nella società israeliana è sempre più forte, la disciplina dell’archeologia, che mette in discussione molti elementi della narrazione biblica?

Mantenendo ed evidenziando solo le tesi che sostengono il racconto biblico, o almeno in parte. Ma la risposta migliore da dare loro è quella dell’archeologo israeliano Ze’ev Herzog, che nel 1999 scriveva: “È difficile ammetterlo, ma per i ricercatori oggi è chiaro che gli israeliti non sono mai andati in Egitto, che non hanno vagato nel deserto, che non hanno conquistato il Paese nel corso di una campagna militare e che non l’hanno diviso tra le dodici tribù di Israele. Forse è ancora più difficile ammettere che la monarchia unificata di Davide e Salomone, descritta nella Bibbia come una potenza regionale, era al massimo un piccolo regno tribale. Inoltre, dovremo accettare l’idea, per quanto scioccante, che il Dio di Israele, Yahweh, avesse una consorte e che la religione originaria di Israele abbia adottato il monoteismo solo nei giorni della fine della monarchia e non sul Monte Sinai”.

Il Monte del Tempio e la Spianata delle Moschee restano al centro del conflitto israelo-palestinese, come ci ricorda il nome “Diluvio di Al-Aqsa” dato all’operazione di Hamas del 7 ottobre: cosa dicono gli scavi effettuati in questa parte di Gerusalemme su questo luogo in cui si intrecciano storia ebraica e palestinese?

Non molto, visto che le autorità religiose musulmane si oppongono al minimo scavo in questo luogo sacro. La parte settentrionale della spianata sfiora la roccia, quindi non vi si può trovare molto. Altrove, c’è un’intera rete di serbatoi e condutture idriche, rivelata nel XIX secolo, ma che da allora non è più stata esplorata ed è diventata fonte di fantasie di ogni tipo.

Quale contributo specifico dà il suo libro alla tesi di Chloé Rosner*, pubblicata con il titolo ”Scavare per la patria. Una storia dell’archeologia in Palestina-Israele”?

È una tesi eccellente che Frédérique Schillo e io citiamo nel nostro libro, in particolare per quanto riguarda gli inizi dell’archeologia sionista in Palestina. Ma non volevamo limitarci a una particolare archeologia della Terra Santa, per mostrare le implicazioni ideologiche, nazionali e/o religiose delle varie scuole – tra cui quella britannica e quella francese – che hanno scavato in questa terra dall’inizio del XIX secolo. Riteniamo che questa prospettiva storica sia essenziale per comprendere alcune questioni contemporanee.

A Gaza, Israele ha distrutto non solo il futuro ma anche il passato, riducendo il patrimonio in macerie, fino ai cimiteri. Cosa fanno gli archeologi israeliani con gli scavi che testimoniano la lunga presenza dei palestinesi in un momento in cui l’esistenza del popolo palestinese viene negata?

In una parola: niente. Con la notevole eccezione dell’organizzazione israeliana Emek Shaveh, di cui abbiamo spesso parlato. Va notato, tuttavia, che nemmeno la costruzione da parte di Hamas di un’enorme rete di tunnel, la “metropolitana” di Gaza, ha contribuito a preservare i resti del sottosuolo, sia quando questi tunnel sono stati scavati, sia rendendo alcuni di questi siti obiettivi militari per Israele.

Lei vive a Gerusalemme da decenni: cosa può dire del presente e del futuro di questa città, un anno e mezzo dopo il 7 ottobre, quando Gaza è stata resa inabitabile?

Gaza è molto lontana… Gerusalemme non è cambiata molto, a parte il fatto che il numero di turisti e pellegrini è diminuito drasticamente. La città è ancora più religiosa che in passato e ci sono più uomini in armi, di solito coloni o soldati. L’atmosfera è pesante e talvolta tragica, soprattutto dopo il ritorno dei corpi degli israeliani rapiti da Hamas durante il massacro del 7 ottobre.

* Il libro di Chloé Rosner analizza come l’archeologia abbia sempre avuto un rapporto stretto e ambiguo con la politica, tra scienza, competizione e sfruttamento. Ciò è particolarmente vero in Terra Santa, dove la riscoperta del suo straordinario patrimonio nel XIX secolo è stata inseparabile dagli eventi che hanno sconvolto la storia della Palestina.

Le tombe della Valle del Kidron, le sinagoghe della Galilea, Hazor, Masada, ecc.  Creuser la terre-patrie (Scavare per la patria) mostra come l’esplorazione di questi siti sia stata utilizzata al servizio del sionismo in Palestina e poi in Israele. Mostra come gli archeologi non solo abbiano portato alla luce il passato, ma abbiano anche interagito nel presente con le ambizioni e i progetti nazionali, coloniali, culturali, educativi e linguistici del movimento nazionale ebraico e dello Stato israeliano.

Combinando ricerca archivistica e analisi politica, Chloé Rosner ripercorre dapprima gli albori dell’archeologia nella Palestina ottomana, con le sue società di studiosi e le collezioni di antichità, per poi individuare il passaggio da una ricerca del sacro a un “inventario” del patrimonio a sostegno della causa sionista. L’archeologia ebraica, istituzionalizzata all’inizio del XX secolo e coinvolta sul campo durante il mandato britannico, ha svolto un ruolo di primo piano nella creazione di una “patria” e ha contribuito a plasmare l’archeologia nazionale israeliana tra il 1948 e il 1967.

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