Straniero in patria e all’estero, vita e opere di un migrante di successo e una mostra che chiude i battenti a Roma
Di Picasso uno pensa d’aver visto tutto, capito tutto. E invece. La mostra che chiude i battenti a palazzo Cipolla a Roma, Picasso lo straniero, ha messo in mostra – si passi il gioco di parole – un artista diverso, a suo modo davvero straniero. Almeno per il sottoscritto. Non tanto e non solo, com’era nelle intenzioni della curatrice, Annie Cohen-Solal, autrice dell’omonimo e pluripremiato Picasso, una vita da straniero, edito in Italia da Marsilio, nel ripercorrere le tappe del migrante di successo. Piuttosto, nel mostrare il fil rouge delle diverse fasi della vita e dell’opera dell’artista iberico che seppe primeggiare in ogni corrente artistica durante la sua lunga e prolificissima esistenza – ben 13mila opere realizzate, un record imbattuto – costruendosi una fama e una fortuna davvero invidiabili. Più che il suo essere straniero in patria e all’estero quel che emerge dall’esposizione – oltre un centinaio d’opere, alcune inedite – giunta alla quinta tappa dopo Parigi, New York, Mantova e Milano, è la poliedricità dell’artista, il suo saper restare al centro delle scene nonostante i mutamenti epocali attraversati.
Al nodo della questione è l’eclettismo di Picasso, pur nella perfetta riconoscibilità che connota l’artista come pochi altri nel panorama della modernità. Picasso il trasformista più che lo straniero, insomma: un artista che seppe adattarsi ai cambiamenti e alle tendenze, spesso anticipandoli, e cadere in piedi nelle situazioni più complesse, grazie a un certo fiuto politico. A una manciata d’anni il ragazzino andaluso sapeva già dipingere come un provetto accademico, grazie al proprio talento e agli ammaestramenti del padre José Ruiz, insegnante di pittura, che lo instradò al mestiere ma col quale ruppe al punto da adottare il cognome della madre Maria Picasso, di lontane origini italiane, ma la sua strada era tutt’altro che lineare e certa. Giunto giovanissimo al successo – per il benessere avrebbe dovuto attendere gli anni venti del ‘900 – la svolta artistica arriva, dopo i periodi blu e rosa, con l’invenzione del cubismo a Gosol, quattro case e un forno sui Pirenei dove Picasso visse l’estate del 1906.
Non sono ben chiare le ragioni del lungo soggiorno dell’artista con la sua compagna del tempo, Fernande Olivier, al secolo Amélie Lang, in uno sperduto paesino di contrabbandieri che oggi fa vanto di un Centre Picasso. Né se fu l’arte iberica preromana o piuttosto i rudi profili montanari a fornirgli lo spunto per Les demoiselles d’Avignon, il megadipinto dell’anno successivo che raffigura sei prostitute nude, tra cui la compagna, e dette la stura alla stagione del cubismo. Fatto è che da quel momento Pablo Ruiz Y Picasso impone il suo stile, si pone all’avanguardia. Ben rappresentata dalla sezione della mostra che illustra gli anni romani e il lavoro con Cocteau nel balletto Parade. Non senza deviazioni dalla via maestra e fughe al passato, come il ritorno all’ordine del primo dopoguerra. Abile nel coniugare l’impegno politico antifascista di Guernica (1937) al dorato esilio parigino durante la Seconda guerra mondiale. Dove a nessun ufficiale nazista venne in mente di bussare all’atelier del campione di un’arte che si diceva degenerata per rispedirlo in patria, tra le braccia dell’alleato Franco.
Maestro della spatola e del pennello, del navigare sottotraccia come del cavalcare la notorietà, Picasso sarebbe divenuto icona dell’internazionalismo pacifista – sua la colomba, in realtà un piccione, posto a emblema dei partigiani della pace stalinisti negli anni Cinquanta – fino a divenire, negli anni del buen retiro d’Antibes fino alle ultime fatiche di Mougins, icona della modernità e del successo. Il bimbetto di Malaga era divenuto un vecchio satiro provenzale, ma nei suoi occhi si coglieva ancora la scintilla del genio, il marchio del predestinato alla fama oltre ogni casa e confine. Straniero sì, ma di successo. Trasformista capace di rendere, novello Mida, oro ciò che toccava.