Il consenso al genocidio a Gaza risuona ancora di più in un Paese fondato sulla memoria di un genocidio [Joseph Confavreux]
Gerusalemme, Tel Aviv (Israele).– L’incontro non è segreto, ma rimane discreto. Questo martedì sera, bisogna spingere le porte chiuse sulla strada del caffè Tarbutat, ai margini del mercato del Carmel, a Tel Aviv, per assistere a un incontro tra Gadi Algazi, che è stato uno dei primi “refuznik” della storia israeliana, e Ziv Bardugo, 19 anni, uno dei pochi israeliani che non vuole portare le armi per partecipare allo sterminio di Gaza.
“Non mi riconosco nel termine ‘refuznik’”, spiega il giovane abitante di Gerusalemme, che ha scontato venti giorni di prigione prima di riuscire a ottenere l’esenzione per motivi psichici. Per me non si tratta solo di non fare il servizio militare, ma di rifiutare più in generale ciò che sta diventando questo Paese. »
Proveniente da una famiglia sefardita «in cui ci sono persone di sinistra, di centro ma anche di destra con cui [lui] non può più parlare», Ziv Bardugo non vede il suo futuro in Israele, come gli 84.000 abitanti che se ne sono andati nel 2024, il doppio rispetto all’anno precedente.
«Spero di andare a studiare all’estero. E se rimarrò qui, mi unirò a organizzazioni come B’Tselem», famosa organizzazione per i diritti umani che ha pubblicato di recente un rapporto dal titolo “Il nostro genocidio”.
Le circa quaranta persone riunite quella sera fanno parte dei rarissimi cittadini del Paese che pronunciano questa parola. Tra loro, Agar* oscilla tra rabbia e disperazione. «Mio nonno è arrivato in Palestina negli anni ’30. Tutta la sua famiglia è rimasta in Polonia ed è stata sterminata ad Auschwitz. Questo Paese è stato costruito su questa memoria, sul “mai più”. Quando ero una scolaretta, era il fulcro dell’insegnamento. Com’è possibile che siano proprio i figli di questa educazione a commettere un genocidio a Gaza?».
Incontrata pochi giorni dopo a nord di Tel Aviv, Adi Argov ha deciso solo di recente di usare il termine genocidio: «Ho iniziato a dirlo solo all’inizio di quest’anno. Ma penso che tra qualche anno, la gente verrà a studiare il modo in cui la società israeliana ha volontariamente chiuso gli occhi e ha cercato di sfuggire alla sua responsabilità collettiva. Si parla solo di Smotrich, Ben Gvir e Netanyahu, ma, in fin dei conti, è in nome del popolo israeliano e con le mie tasse che si sta svolgendo quella che non si può definire una semplice guerra».
L’adattamento ai massacri
Nel corso del 2024, questa energica psicologa di 59 anni ha iniziato a pubblicare ogni giorno le foto, i nomi, le date di nascita e di morte dei bambini palestinesi, ma anche libanesi e iraniani, uccisi dall’esercito israeliano.
«Provengo da una famiglia di partigiani ebrei che hanno resistito con le armi in pugno al nazismo», racconta. « L’uomo che considero mio nonno non mi ha mai detto il nome di sua figlia, né mi ha spiegato come è morta all’età di 2 anni, perché era troppo doloroso. Questo piccolo fantasma mi ha perseguitato per tutta la vita. Non volevo che i bambini massacrati oggi scomparissero allo stesso modo nel limbo, senza nomi né volti.
La rottura unilaterale del cessate il fuoco da parte di Israele, nel marzo 2025, la convince a passare dallo spazio virtuale a quello pubblico, brandendo le foto dei bambini uccisi a Gaza: «La prima volta eravamo solo una quindicina, tremanti, su una grande arteria di Tel Aviv. Poi altri si sono uniti a noi e abbiamo manifestato, sempre in silenzio, anche quando venivamo insultati, in diverse città. Poi ci siamo appostati all’ingresso di una base aerea dell’esercito per costringere i piloti a guardare negli occhi le loro vittime».
Pensa che il successo dei negoziati in corso in Egitto tra Hamas e Israele, sulla base del «piano Trump», possa far uscire la società israeliana dal suo stato di negazione? «Temo, risponde, che anche se gli ostaggi saranno liberati, nulla cambierà davvero. Temo che ci vorranno almeno due generazioni per comprendere ciò che ci sta accadendo. Saranno i nostri nipoti a chiederci: “Cosa avete fatto durante i massacri di Gaza?”».
Che si usino le parole «genocidio», «crimini contro l’umanità» o «crimini di guerra» per descrivere la carneficina di un territorio, il cui ex capo di Stato Maggiore ha ammesso che uccide civili più di otto volte su dieci, non cambia granché la domanda recentemente posta da Orly Noy, famosa attivista di B’Tselem. «Chi sono queste anime obbedienti che fanno funzionare questo sistema? Come può una società così profondamente divisa – tra religiosi e laici, coloni e liberali, kibbutzniks e cittadini, immigrati di lunga data e nuovi arrivati – unirsi solo nella volontà di massacrare i palestinesi senza la minima esitazione?».
Una domanda che può essere seguita da altre. Quali sono i meccanismi che consentono a Tel Aviv, in questo soleggiato inizio di ottobre, di prolungare sia i giochi sulla spiaggia sia il genocidio che si sta consumando poche decine di chilometri più a sud, sulla stessa distesa di sabbia?
Come la capitale della vita culturale, sociale ed economica di Israele, da tempo soprannominata The Bubble (”la bolla“) per riprendere il titolo del film del 2006 di Eytan Fox, finisce ora per evocare più La Zona di interesse, il lungometraggio di Jonathan Glazer che mette in scena la vita ”normale” nelle immediate vicinanze di una macchina di morte in piena azione? E quali sono le ragioni per cui un paese fondato sulla memoria di omicidi di massa finisce per riprodurne la logica?
Shock traumatico e negazione della realtà
Il trauma del 7 ottobre è ancora vivo e continua a farsi sentire. Il teatro della crudeltà messo in atto allora da Hamas e dai suoi seguaci ha funzionato alla perfezione. I volti delle persone uccise o rapite sono ovunque si posi lo sguardo in Israele. Compreso sul primo schermo che si deve guardare, atterrando all’aeroporto Ben-Gurion, per ottenere un lasciapassare in cambio di un riconoscimento facciale. Il 7 ottobre è diventato, letteralmente, un giorno senza fine.
A questi volti si sono ora aggiunti migliaia di adesivi, presenti su pali, pensiline degli autobus o stazioni di biciclette condivise, con l’effigie dei quasi 500 soldati morti nell’enclave dal 2023, spesso dotati di un codice QR che permette di accedere alla vita del defunto e di rendergli omaggio.
«Questa concentrazione sui morti e sul lutto, in un piccolo paese dove tutti si conoscono, alimenta quella cultura della vittima che non lascia spazio ad altre vittime», spiega Eran Tzidkiyahu, docente all’Università Ebraica di Gerusalemme.
«Tutti i paesi che commettono crimini contro l’umanità o genocidi tendono a porsi come vittime, ma in Israele l’ossessione vittimistica costituisce un parametro specifico, basato sulla storia dell’antisemitismo, ampiamente insegnata, trasmessa e anche strumentalizzata”, aggiunge Jérome Bourdon, sociologo dei media, ricercatore franco-israeliano all’Università di Tel Aviv.

«La narrativa dominante è che siamo le vittime definitive», concorda Adi Argov. Anche se ciò non è privo di fondamento, purtroppo capita spesso che le vittime si trasformino in carnefici, pur essendo convinte di rimanere delle vittime».
Denis Charbit, professore di scienze politiche alla Open University of Israel, ricorda tuttavia che la passività della società non è una fatalità. Nel 1982, al momento dei massacri di Sabra e Chatila, una manifestazione gigantesca che ha riunito 400.000 persone è scesa in strada per esprimere la propria indignazione. «Oggi non si vede nulla di simile», osserva. «Le manifestazioni chiedono la fine della guerra, ma in cambio del ritorno degli ostaggi, non per abbreviare le sofferenze della popolazione civile palestinese».
Come conseguenza del trauma, la società israeliana è oggi immersa in una fase di negazione di ciò che sta accadendo a Gaza, con una gamma di reazioni che vanno dalla minimizzazione dei crimini all’accusa rivolta ai palestinesi di mettere in scena le loro sofferenze in quello che viene definito «Gazawood». Per dirla con Ron Dudai, sociologo dell’Università del Negev, «la negazione delle atrocità è un fenomeno mondiale, ma la società israeliana l’ha elevata ad arte».
Per comprendere come la negazione, in questo caso, non consista solo nel rifiutarsi di prendere atto della realtà, ma anche nel non provare alcun imbarazzo al riguardo, occorre fare riferimento all’opera del professore dell’Università di Tel Aviv Daniel Dor, The Suppression of Guilt, pubblicata nel 2005 sulla base delle sue ricerche condotte durante la seconda Intifada, all’inizio degli anni 2000.
«Molti elementi messi in atto all’epoca si ritrovano oggi», spiega a Mediapart: «il credito accordato a tutto ciò che dice l’esercito, scaricare la colpa sugli altri, rifiutare le critiche quando provengono dall’esterno… Non si può capire cosa sta succedendo in Israele senza conoscere quello che qui è un proverbio: “Il mondo intero è contro di noi”. Ma oggi tutto questo è decuplicato».
Il ruolo deleterio dei media mainstream
Le televisioni israeliane sono state i principali sostenitori dell’attuale negazione. « Il canale 11, pubblico, si è trovato sotto forte pressione da parte del governo, analizza Denis Charbit. Il canale 12, il più seguito, e il canale 13 sono emittenti commerciali che si discolpano sostenendo che il pubblico non vuole vedere la sofferenza palestinese. E questi tre canali sono a loro volta in concorrenza con la crescita del canale 14, che ha un’agenda di estrema destra in linea con il governo».
Al punto da arrivare al paradosso che è nel Paese più vicino alla Striscia di Gaza che questa è meno visibile nel mondo. I canali televisivi mostrano solo immagini «embedded» con l’esercito israeliano o riprese dall’alto, mostrando le distruzioni come prove di potenza che dovrebbero vendicare l’umiliazione militare del 7 ottobre. Le rare volte in cui vengono intervistati abitanti di Gaza, lo fanno uomini vestiti come soldati e per attribuire la responsabilità della loro sventura esclusivamente a Hamas.
Per Jérôme Bourdon, «c’è stato comunque un fremito alla fine di luglio, quando il telegiornale più seguito in Israele sul canale 12, attraverso la voce della sua presentatrice di punta, ha affermato che c’erano dei bambini affamati a Gaza e che Israele ne aveva la responsabilità morale. Ma tutto è stato rapidamente dimenticato».
«I giornalisti non pongono nemmeno più le domande ovvie», concorda Denis Charbit. «Durante la guerra con l’Iran, a giugno, abbiamo visto un servizio su un abitante la cui casa era stata distrutta e sul dramma che questo aveva causato. C’era lì uno spiraglio per suscitare empatia nei confronti della popolazione palestinese, le cui case sono state bombardate dall’aviazione israeliana. Niente. Neanche una parola».
«Posso capire che all’inizio fosse difficile mostrare le sofferenze di Gaza a una società che aveva perso tutti i suoi punti di riferimento dopo il massacro del 7 ottobre», continua. «Ma dopo due anni? Temo che abbiamo imboccato una strada irreversibile, tanto più che la generalizzazione del discorso dell’estrema destra era iniziata prima del 7 ottobre».
«Il problema non è solo che i media ignorano ciò che sta accadendo a Gaza, ma che distorcono la realtà», afferma la psicologa Adi Argov. «Quando sono state diffuse le immagini dei bambini affamati, si sono affrettati ad affermare che si trattava di immagini manipolate. Spero che un giorno i loro responsabili saranno chiamati a rispondere davanti alla giustizia».
«È una spirale in cui ogni parte alimenta l’altra, aggiunge Daniel Dor, che sottolinea anche la responsabilità dell’opposizione. Se parlassero a voce alta e chiara, i media potrebbero fare affidamento su di loro. Ma si concentrano solo sulle critiche a Netanyahu e ai ministri estremisti, senza mai mettere in discussione la narrativa dell’esercito israeliano.
«Le televisioni sono ancora prigioniere dell’immagine che hanno del loro pubblico», analizza Jérôme Bourdon. «Ma il giorno in cui ci saranno i processi per giudicare l’attuale catastrofe, bisognerà mettere sul banco degli imputati i grandi media che ne sono stati protagonisti».
La fedeltà al gruppo di appartenenza
Per comprendere l’accettazione sociale della violenza estrema esercitata a Gaza è necessario anche cogliere i meccanismi di fedeltà che la sostengono.
In Israele, questa fedeltà è duplice: nei confronti dello Stato-nazione e del suo esercito, chiamato Tsahal. Non si può infatti comprendere la quasi totale assenza di critiche alle azioni militari a Gaza, nonostante il governo sia ampiamente contestato, senza ricordare il rapporto particolare che gli israeliani hanno con il loro esercito.
Non solo tutti – ragazze e ragazzi, ad eccezione dei palestinesi israeliani e degli ultraortodossi – sono tenuti a prestare servizio per diversi anni in un esercito considerato un pilastro e un cemento di un Paese che Netanyahu ha recentemente descritto come una «super Sparta».
Ma, per dirla con Adi Argov, «quasi tutti qui hanno un marito, un figlio, un fratello, un cugino, un’amica o un vicino a Gaza. È molto difficile ammettere che i criminali delle nostre guerre provengono dalle nostre stesse case. È più facile negare i crimini».
Mentre la composizione sociologica dell’esercito israeliano è stata profondamente modificata negli ultimi anni, con l’incorporazione massiccia di coloni sionisti religiosi collegati a un’ideologia di estrema destra via via più Sempre più insistente, «l’esercito continua ad assumere [in Israele] una dimensione sacra, fondata sul mito che esso sia “morale” e non possa commettere orrori», ritiene Adi Argov. «Mi ci è voluto del tempo per capire che in realtà era uno strumento nelle mani del potere politico», continua.

L’altro nodo in cui la fedeltà al gruppo si combina con il rifiuto di vedere le sue trasformazioni è quello che riguarda lo Stato-nazione. Per Nir Hasson, giornalista del quotidiano Haaretz e uno dei pochi a tenere il timone in una società israeliana alla deriva, «il massacro perpetrato da Hamas ha provocato un trauma le cui ripercussioni si faranno sentire per decenni. Ma la campagna di atrocità condotta successivamente da Israele a Gaza ha distrutto le fondamenta su cui era stato costruito lo Stato di Israele”.
Abbastanza logicamente, in Israele stesso, la critica al sionismo fatica ad affermarsi, se non in modo marginale. Per Agar*, tuttavia, la questione è proprio questa: «Se si mantiene come bussola l’uguaglianza dei diritti, allora il sionismo inciampa nelle sue stesse trappole. Israele vuole essere originariamente “ebraico e democratico”, ma ha sempre avuto la tendenza ad essere democratico per gli ebrei ed ebraico per gli altri. La sinistra sionista è in un vicolo cieco, perché se si vuole la democrazia, non si possono condizionare i diritti a una chiave etnica. »
Al di là delle dispute interpretative sulla natura esatta della colonialità di Israele e delle sue implicazioni sul presente, comincia a delinearsi l’idea che Israele è allo stesso tempo inadatto e costretto a un esame di coscienza di natura esistenziale.
«Se la guerra finisse e gli ostaggi tornassero, saremmo in grado di guardarci in modo diverso da quello di vittime assolute?», si chiede Denis Charbit. Non siamo più sotto l’Inquisizione, Vichy o Hitler. Siamo padroni del nostro destino, nel bene e nel male. Questa è la ragion d’essere dello Stato di Israele».
Elhanan Miller, ex giornalista arabofono del quotidiano Times of Israel, diventato rabbino e animatore di una piattaforma, «People of the Book» («Il popolo del libro»), che cerca di abbattere le barriere culturali e religiose tra israeliani e palestinesi, vuole essere più sereno: «Nel giudaismo, il lutto inizia solo dopo il funerale. Spero che il ritorno degli ostaggi, morti e vivi, ci permetta di uscire da questa paralisi collettiva».
Alcuni propongono già, in ogni caso, percorsi controcorrente rispetto a questo mare di negazione, cecità e consenso che sommerge la società. È il caso di Lee Mordechai, storico dell’Impero Romano che non aveva grandi predisposizioni per diventare un guardiano deciso ad aprire gli occhi della sua società sui crimini che commette.
«Non avevo mai avuto un impegno politico importante, votavo centro-sinistra, non frequentavo nessuna ONG, manifestavo poco», spiega colui che ha fondato un sito diventato un punto di riferimento e intitolato «Testimoniare la guerra a Gaza», sul quale riversa una grande quantità di informazioni in inglese e in ebraico.
«Il mio lavoro di storico mi ha insegnato una metodologia che applico a ciò che sta accadendo a Gaza», spiega. Anche se Israele impedisce l’accesso al territorio, ci sono molte [informazioni] disponibili, a volte fornite, volontariamente o meno, dagli stessi militari israeliani, anche se il lavoro è complicato dal fatto che i giornalisti palestinesi sono presi di mira ed eliminati in massa».
A differenza di molti israeliani, continua Lee Mordechai, “[lui] non ha altra cittadinanza, nessun altro passaporto”: “Come cittadino di un Paese che si dichiara democratico, sono, almeno per ora, libero di esprimere la mia opinione. Questo privilegio comporta l’obbligo di parlare a voce alta e chiara per fermare ciò che sta accadendo”.
Certo, conclude, «l’invisibilizzazione di Gaza e la disumanizzazione dei suoi abitanti risalgono a prima del 2023. Ma [lui] non avrebbe mai pensato di vivere in un Paese accusato, in modo plausibile, di commettere un genocidio. E che ciò fosse compatibile con il fatto di avere una vita “normale” a Gerusalemme».


