«La Grande Ambizione» approda sugli schermi francesi. Mediapart ha seguito l’anteprima nella storica sede del PCF (Mathieu Dejean e Fabien Escalona)
Le luci si riaccendono sotto la cupola bianca di Colonel-Fabien, sede emblematica del Partito Comunista Francese (PCF) a Parigi, opera dell’architetto brasiliano Oscar Niemeyer. Questo 22 settembre, la sala dall’aspetto futuristico ha fatto un salto nel passato. Volti velati di lacrime fissano una tela dispiegata come uno schermo cinematografico.
Il film Berlinguer. La Grande Ambizione, uscito nelle sale l’8 ottobre e proiettato quella sera in anteprima, si è appena concluso con le immagini del funerale del suo protagonista, Enrico Berlinguer. Sebbene il suo nome sia oggi largamente sconosciuto, quest’uomo è stato in prima linea in un’avventura politica originale, che ha mobilitato masse militanti ed elettorali come poche altre in Europa. Alla sua morte improvvisa, nel 1984, 1,5 milioni di italiani e italiane hanno reso omaggio, per le strade di Roma, a colui che era segretario generale del Partito Comunista Italiano (PCI) dal 1972.
Nel 2025, nella sala che un tempo ospitava il Comitato centrale del PCF, i sorrisi congelati in un’espressione nostalgica raccontano l’impronta che ha lasciato al di là delle frontiere transalpine. La Grande Ambizione è per alcuni vecchi militanti comunisti della storia vissuta – quella dell’«eurocomunismo», una strada strategica che Georges Marchais, allora segretario generale del PCF, aveva temporaneamente intrapreso prima di rifugiarsi in un irrigidimento identitario che fu fatale al partito.
Ma il fatto che anche le menti meno esperte siano conquistate dall’emozione la dice lunga sul momento che stiamo vivendo. Mentre la sinistra in Francia affronta una crisi politica senza precedenti, il blocco costituito dal Nuovo Fronte Popolare (NFP) raccoglie solo un terzo dei seggi all’Assemblea Nazionale – nemmeno in Italia c’era la maggioranza all’epoca – e le destre sono in via di unificazione, La Grande Ambizione mette opportunamente in luce l’eredità di questa figura, anche a costo di sfiorare l’agiografia.
Grazie alla convincente interpretazione dell’attore Elio Germano e al mix di immagini d’archivio e finzione, tutto è fatto per farci accompagnare il suo percorso con empatia e misurare il divario tra la situazione attuale della sinistra e le “possibilità” che allora erano aperte in un paese vicino al nostro. Il fallimento del suo tentativo di arrivare al potere, che finisce per scontrarsi con gli intrighi e la violenza politica, annuncia anche un ciclo che sembra non essersi mai chiuso, coronato dalla presenza dell’estrema destra al vertice dello Stato in Italia e molto vicina ad esserlo in Francia.
«È un film molto malinconico, perché la storia finisce male e Berlinguer non è riuscito a realizzare ciò che voleva. Ma sono le canzoni tristi che rendono felici, ed è il caso di questo film: è il ricordo di un leader comunista che ci ha provato”, commenta Frédérick Genevée, storico e presidente dell’”Association pour l’histoire vivante” (Associazione per la storia vivente), che accompagna La Grande Ambizione in diverse proiezioni-dibattiti.
Una sinistra di trasformazione al suo apice
Dal lato positivo, quindi, il film La Grande Ambizione mostra un leader comunista che è riuscito a stringere un legame di vicinanza con il popolo senza avere origini operaie, e alla guida di un partito in costante ascesa elettorale, al punto da preoccupare gli Stati Uniti dell’epoca, in piena guerra fredda. Un leader desideroso, tuttavia, di affrancarsi in modo sempre più netto dalla tutela di Mosca, in nome delle vie “nazionali” verso il socialismo. Le scene in cui lo si vede frequentare i funzionari sovietici e la loro lingua morta sono piuttosto gustose.
Questi aspetti gloriosi corrispondono alla scelta del regista, Andrea Segre, di concentrarsi sugli anni 1974-1978. «È l’apogeo del PCI in termini elettorali», commenta Hugues Le Paige, che ha recentemente scritto un libro intitolato L’Héritage perdu du Parti communiste italien (Les Impressions nouvelles, 2024). Il partito era allora la forza politica emergente in Italia. C’era un’enorme speranza, palpabile nelle strade, che il PCI potesse arrivare al potere a livello nazionale, e non solo a livello locale».
Questo periodo è tuttavia pieno di pericoli, come ben mostra il film. Berlinguer definisce la sua strategia tenendo presente il colpo di Stato del generale Pinochet in Cile, l’11 settembre 1973, che rovesciò il governo dell’Unità Popolare di Salvador Allende, il quale aveva ottenuto il 36,6% dei voti espressi in un’elezione presidenziale a turno unico nel 1970. Il timore di reazioni autoritarie in caso di arrivo al potere è alimentato dagli attentati fascisti che si moltiplicano in Italia e contribuiscono alle violenze dell’estrema sinistra, che il PCI disapprova altrettanto.
Sono tutti questi elementi che portano Berlinguer a difendere, sulla stampa e negli organi del partito e poi all’esterno, il suo famoso progetto di «compromesso storico». Sebbene la sua forma sia lasciata aperta, si tratta di un avvicinamento il più stretto possibile al partito al potere, la Democrazia Cristiana (DC). Per sfuggire ai colpi della reazione, anche con un buon risultato elettorale, la scommessa è quella di esercitare il potere appoggiandosi alle forze popolari distribuite non solo nella sinistra politica e sindacale, ma anche nel mondo cattolico.
La scommessa di un «compromesso storico»
Anche se le sfide di un governo di minoranza riecheggiano la Francia del 2025 e le ingiunzioni al «compromesso» martellate su tutte le onde radio negli ultimi mesi, il contesto rimane molto diverso.
«La democrazia italiana è allora molto giovane, dopo un doppio decennio di regime fascista», precisa Roger Martelli, storico ed ex dirigente del PCF, che incrociò la strada di Berlinguer alla fine della sua vita. Il PCI e la DC avevano in comune il fatto di aver combattuto insieme la dittatura mussoliniana, e la repubblica nata dalle sue ceneri era opera loro comune. La scommessa di Berlinguer aveva un fondo di preoccupazione, legato alla doppia ondata di attentati di estrema destra e di estrema sinistra, ma anche un fondo di ottimismo sul fatto che la memoria della Resistenza avrebbe avuto un peso positivo».
«Quando Berlinguer usa le parole “compromesso storico”, ‘compromesso’ significa “impegno”, spiega Laurent Lévy, militante comunista ventenne all’epoca dei fatti e autore di un libro sull’esperienza eurocomunista in Francia, Histoire d’un échec (Edizioni Arcane 17, 2025). È l’idea che la sinistra voglia lottare stringendo un accordo che garantisca un’ampia maggioranza, e che da sola non avrà né un’ampia maggioranza né una maggioranza entusiasta. È una lezione fondamentale di quel periodo».
L’altra lezione è che un compromesso non può essere fatto da soli, altrimenti si tratta di una resa. Ci vogliono due per ballare il tango, e Berlinguer ha chiaramente sopravvalutato la capacità della DC di diventare un partner affidabile. Certo, nel film si percepisce che il partito cattolico era plurale, con un’ala destra guidata dall’astuto Giulio Andreotti e un’ala sinistra più aperta incarnata da Aldo Moro. Ma quest’ultimo doveva fare i conti con molti interessi e con interlocutori statunitensi per i quali era fuori discussione che il PCI potesse accedere alle leve del governo.
Nonostante la differenza di contesto, è difficile non pensare al problema che si pone attualmente in Francia: impossibile per la sinistra pretendere di governare senza ampliare la propria base parlamentare a partner di centro-destra, ma questi ultimi dovrebbero avere una coscienza storica sufficiente per assumersi la responsabilità di fare fronte comune contro l’estrema destra, rinunciando per questo a parte delle loro scelte economiche.
L’occultamento del «secondo Berlinguer»
In ogni caso, tutto crolla quando Aldo Moro viene rapito e poi assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978, un duro colpo per la democrazia italiana. Il PCI viene accusato dai responsabili della DC di favorire il «terrorismo rosso» che ha sempre combattuto, anche se ha perso consensi nel mondo operaio e studentesco essendo stato l’unico a tendere la mano ai democratici cristiani.
I deputati comunisti si rifiutarono infatti, per «solidarietà nazionale», di far cadere il governo, senza ottenere nulla di sostanziale in cambio. «Il partito appare corresponsabile della politica del governo Andreotti, sulla quale non può realmente influire. Era proprio questo l’obiettivo della manovra della DC», scrive Hugues Le Paige nel suo libro.
Purtroppo, l’intensità dei dibattiti interni su questo tema è trattata molto marginalmente nel film, anche se si percepiscono i dubbi di alcuni dirigenti e le critiche mosse a Berlinguer dai suoi stessi figli. Soprattutto, anche se un’opera artistica non è un trattato dottrinale, non viene fornito alcun elemento su ciò che accade tra l’assassinio di Moro e la morte di Berlinguer. Eppure, in quegli anni, il leader comunista aveva fatto un bilancio critico della sua scommessa persa ed esplorato un’altra via strategica.
Questo periodo corrisponde al «secondo Berlinguer». «È tornato all’opposizione, ma aprendosi ad altre forze della società, perché non ha mai abbandonato l’idea di realizzare il più ampio raggruppamento possibile attorno a una trasformazione emancipatoria», ricorda Roger Martelli.
« Ha sviluppato l’idea di un’alternativa democratica basata su tre pilastri solidali, ancora oggi fonte di ispirazione, secondo Hugues Le Paige: una “questione morale” che era in realtà la messa in discussione di una rappresentanza politica viziata dalla corruzione; un’“austerità” anticapitalista non molto compresa all’epoca, ma che metteva in discussione il senso e le modalità delle scelte di produzione in un mondo finito; e la costituzione di un nuovo blocco storico con i movimenti ecologisti, pacifisti e femministi».
Alla fine del film, rimane comunque l’impressione di immergersi in un mondo in cui la cultura dei responsabili politici era di un altro livello rispetto a quella odierna – basta pensare, mentre si guardano gli interventi di Berlinguer dal podio, al linguaggio «tecnico» dei suoi lontani successori in Italia, o alle dichiarazioni di Fabien Roussel in Francia sulla carne e l’assistenzialismo. «Non è approfondito nel film, ma si vedono persone che pensano, che hanno prodotto un’opera teorica», conferma Laurent Lévy.
E le ultime immagini della folla radunata alla scomparsa di Berlinguer continuano a interrogarsi sulla rapidità con cui il PCI si è autodistrutto all’inizio degli anni ’90. «Si possono moltiplicare i fattori esplicativi», confida Hugues Le Paige, «ma ammetto che per me rimane un mistero la scomparsa dall’oggi al domani di un partito di 1,4 milioni di membri, convertitosi al social-liberalismo senza nemmeno passare per la social-democrazia riformista».


