Tra una rivoluzione e un sussurro. Essere palestinese in Israele

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Per i palestinesi in Israele, l’autocensura è un meccanismo di sopravvivenza, il silenzio la condizione della cittadinanza [Thawra Abukhdeir]

Quest’estate, ad Amsterdam, ho preso parte quasi per caso a una marcia di solidarietà con la Palestina. Stavo camminando per il centro quando, svoltato un angolo, mi sono ritrovata in una strada piena di cori, bandiere e spalle avvolte in kefiah. Qualcuno mi ha chiesto da dove venissi. Quando ho risposto “Palestina”, più forte di quanto avessi previsto, la folla ha risposto all’unisono: “Free Palestine!”. Per un istante mi sono resa conto che il mio corpo aveva dimenticato cosa significa non sussurrare.

La libertà di espressione non è solo un principio. È qualcosa che si sente nel battito, nella postura, nel modo in cui il petto si espande quando capisci che non devi più pesare ogni parola. È fisica, e una volta che la si conosce, la sua assenza diventa insopportabile.

A casa, da palestinese a Gerusalemme e Haifa, ho imparato ad allenarmi al silenzio. Esprimere la propria identità palestinese può avere costi concreti: una convocazione della polizia, un provvedimento disciplinare sul lavoro o all’università, un interrogatorio per un post su Facebook, una detenzione senza accuse formali, o peggio. Questa pressione si insinua nel corpo.

Quando un israeliano mi chiede chi sono o da dove vengo, mi fermo, do un’occhiata a chi mi circonda e abbasso la voce, sentendo il petto irrigidirsi. “Sono palestinese… cioè araba”, dico, come se quella traduzione riflessa potesse addolcire la parola alle loro orecchie. Cerco di dirlo con sicurezza, in ebraico, con il mio accento palestinese, ma questo non fa che attirare più attenzione.

Ad Amsterdam ho pianto nel vedere l’espressione palestinese libera dalla paura: bandiere alle finestre, adesivi sui tram, slogan di solidarietà scarabocchiati sulle panchine. E non sono l’unica. A Londra, il mese scorso, durante il festival Together for Palestine, amici — soprattutto palestinesi — mi hanno raccontato di non aver mai provato una tale forza collettiva in esilio. “Per la prima volta,” ha detto uno di loro, “ho sentito che non siamo soli.”

Lo sento anch’io nei miei viaggi di questi tempi: un passaggio emotivo dalla difensiva alla visibilità senza difese. All’estero non devo difendere la mia identità né spiegare il sistema di oppressione sotto cui abbiamo vissuto per tutta la vita.

Devo però sottolineare che le mie aspettative sono molto basse: l’occupazione mi ha insegnato che la sopravvivenza stessa può sembrare una forma di dignità. E naturalmente l’Europa non è un rifugio dalla repressione statale. Dopo il 7 ottobre, la Francia ha cercato di vietare le manifestazioni pro-palestinesi; la Germania — secondo maggiore fornitore di armi a Israele — ha represso con violenza le dimostrazioni pubbliche di solidarietà con la Palestina, pur proclamandosi paladina del diritto internazionale.

Ma, a differenza di quanto accade in Israele, la pura forza del sostegno popolare in Europa ha infranto la barriera della paura.

Il susseguirsi di riconoscimenti di quest’anno ha reso visibile quell’atmosfera anche sul piano diplomatico. Spagna, Irlanda e Norvegia hanno riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina nel maggio 2024, seguite pochi giorni dopo dalla Slovenia, a inizio giugno. Entro settembre 2025, il numero dei riconoscimenti ha superato i 150 Stati membri dell’ONU, mentre altri governi europei annunciavano o avviavano il processo di riconoscimento. Per molti di noi, questo riconoscimento a livello statale è qualcosa di enorme e profondamente emotivo — richiama la stessa miscela di gioia e sollievo che si prova nel vedere l’identità palestinese espressa apertamente, senza timore.

E tuttavia, arriva anche troppo tardi. La crudele ironia è che questo improvviso riconoscimento dell’identità palestinese all’estero è giunto solo attraverso l’assalto israeliano a Gaza, trasmesso in diretta mondiale: un genocidio che ha tolto la vita a più di 67.000 persone — un numero quasi certamente molto inferiore alla realtà.

Penso ai palestinesi di Gaza, a coloro che sono sopravvissuti a questo genocidio e ai cinque assalti precedenti — persone capaci di distinguere, solo dal suono, il ronzio di un drone dal sibilo di un missile in arrivo. Alle manifestazioni ho imparato un’eco lontana di quella lingua: i candelotti lacrimogeni, i proiettili di gomma, le granate stordenti, il fuoco vivo. Ancora oggi, quando qualcosa esplode, il mio corpo sobbalza. La notte di Capodanno, negli Stati Uniti, i fuochi d’artificio mi hanno fatta piangere. Il mio corpo si è ricordato prima della mia mente, riportandomi a Haifa, ai mesi in cui tutti vivevano in attesa dei missili dal Libano o dall’Iran.

Ai governi complici dell’apartheid e del genocidio israeliano, grazie per aver riconosciuto il nostro diritto fondamentale all’autodeterminazione. Ma ora lo metterete in pratica, vincolando la politica estera, il commercio e la vendita di armi al rispetto dei diritti che dite di riconoscere? O resterà solo una messa in scena di empatia?

L’architettura del controllo

Da anni, il governo israeliano cerca di limitare ogni manifestazione pubblica di identità palestinese — una forma di repressione culturale che è aumentata drammaticamente dopo il 7 ottobre. Dal gennaio 2023, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha ordinato alla polizia di rimuovere le bandiere palestinesi dagli spazi pubblici. La bandiera non è formalmente illegale, ma nella pratica è trattata come un oggetto di contrabbando. Intanto, quella israeliana è ovunque: sventola nelle cerimonie ufficiali, copre edifici pubblici, viene usata per punire i cittadini colpevoli del “reato” di esprimere empatia per Gaza.

Ma la repressione non è iniziata con Ben Gvir — in realtà, è da tempo incorporata nel diritto israeliano. La “Legge Nakba” del 2011 ha autorizzato lo Stato a tagliare i fondi a scuole, teatri o municipalità che commemorano la spoliazione palestinese del 1948. La Legge antiterrorismo del 2016 ha ampliato la definizione di “istigazione” fino a includere poesie, canzoni, post su Facebook o anche la semplice condivisione di contenuti che le autorità ritengano possano “incoraggiare” il terrorismo. Ha inoltre introdotto un nuovo reato: “identificarsi” con un gruppo bandito — il che può voler dire sventolare una bandiera palestinese o intonare uno slogan.

L’ambiguità è la chiave. Dall’ottobre 2023, Adalah e altre organizzazioni per i diritti umani hanno documentato decine di incriminazioni di cittadini palestinesi con l’accusa di “istigazione” o di “identificazione con gruppi terroristici”, spesso basate esclusivamente su post social che citavano versetti coranici o piangevano i palestinesi uccisi a Gaza. Nel novembre 2023, i legislatori sono andati oltre, criminalizzando la “fruizione di materiali terroristici”, arrivando così a controllare non solo ciò che dici, ma anche ciò che leggi o guardi.

I politologi chiamano questo processo securitizzazione: trasformare l’identità palestinese da questione politica a minaccia per la sicurezza, così da giustificare restrizioni eccezionali. L’effetto è tanto punitivo quanto disciplinare. Quando uno studente viene interrogato per un post — o persino per un’emoji — tutta la classe impara a tacere.

Crescendo a Gerusalemme, la consapevolezza di essere osservati, di essere sempre un po’ sospetti, faceva parte delle regole domestiche. Non fumare. Non frequentare ragazzi. Non accettare caramelle dagli sconosciuti. E anche: non parlare troppo forte di chi sei. Non rischiare uno sguardo di troppo a un soldato, o una strada sbagliata in un insediamento ebraico che potrebbe finire a sassate.

I miei genitori mi hanno chiamata Thawra — “rivoluzione” in arabo — ma la mia educazione è stata tutta improntata alla cautela. Puoi immaginare le discussioni con mio padre, quando cercava di dissuadermi dall’andare alle proteste. “La Palestina resta nel cuore,” diceva, cercando di rassicurare la sua unica figlia che, anche se non scendevo in strada a lottare, non stavo abbandonando la mia comunità né la mia identità.

Mio padre voleva proteggermi da ciò che lui stesso aveva vissuto da adolescente durante la Prima Intifada. Nella prigione israeliana dove scontò due anni per lancio di pietre, ogni pasto era intriso di una cannella economica e scadente, usata per coprire il sapore del cibo avariato. L’odore, raccontava, saturava l’aria, gli bruciava la gola, gli rivoltava lo stomaco; impregnava i vestiti, i capelli, la pelle. Non ha più mangiato quella spezia da oltre 35 anni, e ancora oggi, prima che un piatto arrivi in tavola, in famiglia qualcuno inevitabilmente chiede, scherzando: “C’è cannella in questo?”.

Ci sono voluti anni perché capissi che il mio nome era il loro compromesso. Thawra portava con sé il peso del senso di colpa dei miei genitori, insieme alla fragile speranza di resistere. Per molti della loro generazione, quel senso di colpa persiste — la consapevolezza che ciò che potevano trasmetterci non era la libertà in sé, ma solo la lotta per conquistarla. Una lotta tramandata perché il mondo li ha ignorati e perché la sopravvivenza veniva prima di tutto.

Il nostro silenzio è la nostra cittadinanza

A Gerusalemme, il cambiamento dopo il 7 ottobre è viscerale. Un tempo si poteva affrontare un soldato che molestava giovani palestinesi. Era pericoloso, certo, ma non un suicidio; forse perché sono una donna, o forse perché allora i soldati erano meno pronti a sparare. Ora, se provo a parlare, i vicini mi tirano indietro: “Ma dove credi di essere? Questa è la polizia di Ben Gvir. Ti spareranno.” E hanno ragione.

L’implicazione è agghiacciante: abbiamo interiorizzato la logica della violenza di Stato al punto che aspettarsi protezione dalle autorità sembra ridicolo. Non posso fare a meno di pensare che, se mi sparassero, la narrazione finirebbe inevitabilmente per addossarmi la colpa: Ve l’avevamo detto di non parlare.

La stessa logica perversa si applica agli attacchi del 7 ottobre. “Hamas non avrebbe dovuto farlo”, si dice, “perché la risposta di Israele era prevedibile.” Formulata così, la violenza brutale di Israele inizia a suonare naturale, come se l’inevitabilità fosse una scusa, e la colpa tornasse a ricadere sui palestinesi, che devono prima condannare per poter parlare. In pratica, l’aspettativa di dover condannare, sempre e comunque, diventa un’altra forma di silenziamento.

La repressione si manifesta anche nel quotidiano. Di recente camminavo con un’amica che porta l’hijab in un quartiere ebraico di Gerusalemme, evitando di incrociare gli sguardi, attenta a non “provocare”. Gli ebrei israeliani tendono a considerare l’hijab una dichiarazione politica. Un uomo religioso, con la kippah, ci ha sbattuto la porta del parcheggio in faccia e le ha sputato addosso. Incontri del genere insegnano più del silenzio: ti insegnano come non guardare, come non camminare, come rimpicciolirti nello spazio pubblico.

Penso anche a quando mi fermai a fare benzina a Haifa, lo scorso dicembre, e un giovane soldato — appena più grande dei miei studenti palestinesi di 19 anni, a cui insegnavo inglese all’Università Ebraica — mi si avvicinò mentre pagavo. Appena rientrato dal servizio a Gaza, era agitato, camminava avanti e indietro, parlava a scatti, si richiudeva su se stesso tra una frase e l’altra. Parlava del suo trauma, di un governo che lo aveva abbandonato, ma anche dell’orgoglio di aver “protetto Israele.”

Ascoltavo, colpita dalla sua vulnerabilità e dalla sua giovinezza. Era insieme vittima e parte di un sistema genocida. Presumeva che fossi un’israeliana ebrea. Succede spesso a Haifa, anche tra chi si vanta di credere nella “coesistenza”. Mi scambiano per mizrahi, forse franco-marocchina. “Non puoi essere araba. Musulmana, poi? Impossibile,” dicono.

Passare per qualcun altro non è sempre un privilegio; è una forma particolare di esposizione. Vedi cosa pensano davvero le persone quando credono che tu sia dei loro. Senti la logica della violenza nella sua forma più cruda, sapendo che è rivolta a te come a una presunta complice.

Poi la solita domanda: sa che sono palestinese? Sarebbe sicuro dirglielo? Potrei raccontargli che ho famiglia a Gaza, che il suo esercito sta distruggendo le loro case e le loro vite? No. Se gli ebrei israeliani manifestano la loro cittadinanza apertamente — servendo nell’esercito, sventolando la bandiera israeliana, dichiarando fedeltà allo Stato — noi, palestinesi con cittadinanza israeliana, dimostriamo la nostra appartenenza con il silenzio misurato, con ciò che scegliamo di non dire.
Il nostro silenzio è la nostra cittadinanza.

Una divisione del lavoro

Gli attivisti palestinesi nella diaspora a volte scambiano la nostra cautela per complicità. Chi vive qui, invece, vede nell’idealismo della diaspora — nel suo tutto o niente — una sfida di cui noi paghiamo il prezzo. Entrambe le letture sono ingiuste, eppure entrambe vere.

Si può pensare a una divisione del lavoro: all’estero, palestinesi e alleati possono amplificare la nostra voce collettiva, fare pressione sui governi, allargare i confini di ciò che è politicamente possibile. A casa, noi proteggiamo l’identità che continua a bruciare dentro di noi, in silenzio. Abbassiamo la voce quando diciamo “Palestina” o parliamo arabo sull’autobus; gli studenti portano le bandiere piegate negli zaini ma raramente le sventolano alle manifestazioni; nei gruppi WhatsApp di famiglia si evitano certe parole; i fratelli maggiori avvertono i più giovani su cosa non mettere “mi piace” o condividere sui social.

Questa è la sopravvivenza sotto securitizzazione. Ogni decisione è calcolata in base al rischio: questa frase metterà mio fratello su una lista? Questo gesto mi impedirà di laurearmi? Questa parola mi costerà il lavoro?

Ma la differenza tra l’esistenza nella diaspora e quella qui, in Palestina, non è solo una questione di prudenza. Da lontano, gli attivisti pro-Palestina possono contare su una chiarezza morale che la distanza consente. Chi lavora per porre fine all’occupazione e all’apartheid dentro la Palestina e Israele deve, al tempo stesso, sopravvivere e resistere. Non c’è spazio per discutere della “versione più ideale” del futuro della Palestina mentre crescono i checkpoint e si moltiplicano le demolizioni.

E anche se qualcuno può disapprovare, parte di questo lavoro consiste nel collaborare con quegli ebrei israeliani disposti a mettere in gioco il proprio corpo e i propri privilegi per opporsi alla pulizia etnica, al genocidio e al fascismo. Questa collaborazione non cancella lo squilibrio di potere; riflette semplicemente l’urgenza della lotta in un luogo dove la sopravvivenza non è un concetto astratto.

A volte immagino cosa accadrebbe se ogni palestinese scendesse in strada in Israele, in numeri pari a quelli delle manifestazioni all’estero. L’immagine che mi viene in mente non è quella di folle che cantano, ma di una strage di massa per mano dei soldati e della polizia israeliana. Durante la Grande Marcia del Ritorno del 2018 a Gaza, migliaia di persone manifestarono pacificamente vicino alla barriera di confine israeliana e furono accolte da fuoco vivo: centinaia di morti, decine di migliaia di feriti. Quella memoria vive nel corpo collettivo palestinese.

O quando mio cugino Mohammad Abu Khdeir fu bruciato vivo dai coloni israeliani a Gerusalemme, nell’estate del 2014. Lo cercammo noi, perché nessuno si fidava delle autorità. La loro risposta fu assediare la città e contenere la nostra rabbia, non cercarlo ovunque. Più tardi, quando portammo la sua foto davanti al tribunale chiedendo giustizia, i coloni ci sputarono addosso mentre la polizia antisommossa reprimeva una famiglia in lutto.

Più di recente, le manifestazioni dei palestinesi in Israele contro la guerra in corso a Gaza sono state violentemente disperse dalla polizia in assetto antisommossa, che lancia granate stordenti e arresta i passanti con il pretesto di “disturbo dell’ordine pubblico.” Così come accadeva anni prima del 7 ottobre, quando protestavamo all’Università Ebraica contro gli scioperi della fame, le demolizioni di case o l’uccisione di bambini durante gli assalti a Gaza: la risposta di Israele è sempre la stessa, mandare le unità antisommossa a schiacciare la nostra voce.

Eppure un altro pensiero s’insinua: gli israeliani protestano in gran numero senza essere massacrati. Subiscono la brutalità della polizia, certo, ma non il fuoco vivo. Forse l’unico modo per noi palestinesi di scendere in piazza in massa sarebbe se gli israeliani formassero un cerchio intorno a noi, si ponessero tra noi e i fucili, permettendoci di guidare la protesta dall’interno.

Portare l’odore addosso

Sul treno di ritorno dalla marcia di Amsterdam, un bambino ha tirato la kefiah di una manifestante e ha chiesto alla madre cosa fosse. “È una sciarpa,” ha risposto.

Mia madre è cresciuta in America in un’epoca in cui la parola “Palestina” quasi non esisteva, e la gente la confondeva con “Pakistan.” Ho ereditato quel senso di invisibilità, quella tensione infantile di chi si prepara a essere ignorato ogni volta che pronuncia il nome del proprio Paese — al banco di un aeroporto o davanti a un supplente in classe.

Oggi dico che vengo dalla Palestina, e sempre più spesso la persona a cui lo dico sa esattamente cosa intendo. Non esitano più; si commuovono. Vogliono abbracciarmi. A volte sanno troppo; a volte conoscono solo un meme o uno slogan. Ma il riconoscimento non è niente — il riconoscimento è la porta che Israele ha cercato a lungo di tenere chiusa.

Più tardi, nella mia stanza, il mio cappotto aveva ancora l’odore della strada, portava con sé tracce di cori e bandiere. Ho pensato di postare una foto. Non l’ho fatto. Quell’esitazione è il muro invisibile con cui convivo: una vita in cui il mio nome può essere detto ad alta voce, e un’altra in cui deve restare un sussurro.

La mattina dopo, l’odore era ancora lì.

Thawra Abukhdeir è un’analista politica e dei media palestinese, nata e cresciuta a Gerusalemme. Parla arabo, ebraico e inglese, e ha un background nel giornalismo e nel diritto dei diritti umani. Ha lavorato con ambasciate, organizzazioni internazionali e società civile in Israele, Palestina, Europa, Regno Unito e Stati Uniti.

 

 

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