Il successo del film su Berlinguer racconta il bisogno di una politica popolare

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Quasi 700.000 ingressi nelle sale italiane. Che cosa dice il successo inatteso di “La Grande Ambizione” [Cécile Debarge]

Ancona. «Un tempo, i partiti politici erano luoghi di fermento intellettuale. Oggi, quando esistono ancora, sembrano vuoti.» Microfono in mano, occhiali rotondi e felpa grigia sulle spalle, uno studente interroga l’assemblea riunita davanti alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma: «Come possiamo riappropriarci dei luoghi che un tempo erano del popolo?»

Sotto il sole di fine autunno, un centinaio di studenti si sono seduti sui gradini dell’ingresso della facoltà e condividono con il regista Andrea Segre le loro riflessioni sul suo film Berlinguer. La Grande Ambizione, uscito in Francia mercoledì 8 ottobre. «La domanda che vorrei che la vostra generazione si ponesse è come reinterpretare ciò che oggi non esiste più», risponde il regista. Questa scena, girata esattamente un anno fa, apre il documentario Noi e la Grande Ambizione, in uscita a novembre in Italia.

Da Napoli a Padova, da Roma a Firenze, le testimonianze contenute nel film tessono il racconto di un’Italia impegnata, politicizzata, mobilitata e anche preoccupata. Si parla della mancanza di fiducia nelle organizzazioni giovanili, di un servizio pubblico smantellato che fa dimenticare il senso del bene comune, della difficoltà degli eletti nel difendere le lotte collettive, dell’avvento di modalità comunicative che impediscono la complessità, di una società frenetica che non lascia tempo alla costruzione duratura delle lotte. «Non deve renderci nostalgici, ma essere un invito alla lotta», spera una spettatrice ventenne.

Era questa la speranza segreta del regista Andrea Segre: che la storia di Enrico Berlinguer e del Partito Comunista Italiano (PCI) permettesse «di interrogare la crisi del sistema democratico, il legame tra partecipazione politica e vita sociale, la grave crisi della sinistra e la tendenza a far trionfare un’inclinazione individualista neoliberale». Fin dalle prime proiezioni, la scommessa sembra vinta. «Cos’è davvero la politica?», si chiede ad esempio la giovane Elettra a Torino. «I partiti e le istituzioni o il modo in cui organizziamo le nostre vite?» Il regista decide di filmare questi scambi per raccogliere queste voci.

Una storia che ancora oggi incuriosisce

In un paese dove l’astensionismo è talvolta descritto come «il primo partito politico», il successo di un film che ripercorre l’epopea di Enrico Berlinguer, figura emblematica del PCI negli anni ’70, ha sorpreso. Soprattutto il fatto che «su quasi 700.000 ingressi, 300.000 siano stati di under 40», precisa Andrea Segre.

«Li hanno descritti come schiacciati dall’individualismo, consumisti, sempre sui social… In realtà, hanno una capacità istintiva di comprendere le violenze del neoliberismo, perché fanno parte del loro DNA. Questo ridefinisce completamente i rapporti tra privato e politico», analizza.

Ugo Sposetti fa una constatazione simile. Da due anni, il presidente dell’Associazione Enrico Berlinguer porta in giro per il paese una mostra dedicata alla lotta politica dell’ex leader comunista, che ha attirato quasi 170.000 persone. I primi visitatori erano per lo più contemporanei di Berlinguer, oggi settantenni o ottantenni, ma il pubblico si è ringiovanito man mano che i media ne parlavano.

«La società degli anni ’70 è stata fortunata, perché appena si diventava adulti ci si ritrovava nella piazza del comune, e si trovava sempre una porta aperta: quella dei partiti o quella dei sindacati», afferma Ugo Sposetti. «Le generazioni successive hanno trovato quelle porte chiuse.» «Dove incontrano ancora la politica le persone?», si chiede, riecheggiando le sue parole, uno studente intervistato nel documentario Noi e la Grande Ambizione.

L’uomo del “compromesso storico”

Cosa attira, incuriosisce, affascina tanto di Berlinguer? Una forma di nostalgia, forse, per i suoi contemporanei, come quella signora dai capelli bianchi che, nel documentario, si asciuga le lacrime alla fine della proiezione. Ma i dibattiti che la sua storia ha suscitato, anche tra chi non era ancora nato al momento della sua scomparsa, mostrano che essa risuona in modo particolare nell’Italia di Meloni, estremamente polarizzata.

«Incarna una politica che non esiste più, onesta, senza arroganza né indifferenza. Se i giovani applaudono numerosi alla fine del film, è perché abbiamo bisogno di una politica diversa da quella di oggi», analizza Claudio Caprara, giornalista e autore del libro Fischiava il vento, una «storia sentimentale del Partito Comunista Italiano».

In quasi 340 pagine, Caprara va alla ricerca dei miti, dei riti, dei luoghi che hanno plasmato l’immaginario collettivo del PCI e attraversato la storia italiana. «Era il luogo di una comunità che si riconosceva nelle stesse idee, attraverso i leader del partito ma anche attraverso i militanti quotidiani», prosegue. «Questa esperienza politica appartiene a un altro mondo, era spesso la vita quotidiana delle persone. Al suo apice, il PCI contava 2,2 milioni di membri. Il Partito Democratico oggi ne conta 60.000…»

Il film racconta anche cinque anni singolari della lotta politica di Enrico Berlinguer, quelli del “compromesso storico”, che gli valsero critiche anche all’interno del PCI. Sull’onda del colpo di Stato in Cile nel 1973, tenta di stringere un patto con il leader della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, per garantire che una partecipazione del PCI al potere non provochi tentazioni golpiste.

Quattro decenni di decomposizione della sinistra

Durante le ricerche per il film, il regista Andrea Segre ha incontrato decine di ex oppositori di Berlinguer, soprattutto della sua ala sinistra politica o sindacale, per i quali quel compromesso fu un tradimento. «Molti di loro hanno rivalutato il termine e riconosciuto che probabilmente era in anticipo sui tempi», racconta, «anche se fu un grosso errore comunicativo usare la parola “compromesso” nella società degli anni ’70».

Fu anche un’epoca in cui, «nonostante le divisioni, il Parlamento approvava grandi riforme sociali, dai diritti dei lavoratori a quelli della famiglia, dalla riforma del sistema sanitario al diritto all’aborto o al divorzio», ricorda Ugo Sposetti. Poco dopo la morte di Enrico Berlinguer nel 1984, l’Italia voltò le spalle a quella storia per molto tempo.

«Dopo la caduta del blocco orientale, all’inizio degli anni ’90, si affermò l’idea che la sinistra non potesse più trasformare il mondo, che il capitalismo avesse vinto e che bisognasse farsene una ragione, cioè l’esatto contrario di Berlinguer», spiega Gianfranco Nappi, editore napoletano e autore del libro L’ultima generazione di Enrico Berlinguer.

Per lui, è con la crisi finanziaria del 2007-2008, quando «il paradigma del neocapitalismo e della neoglobalizzazione entra in crisi», che il pensiero di Berlinguer riaffiora con forza. Ma l’Italia è profondamente cambiata. All’epoca, Silvio Berlusconi iniziava il suo quarto mandato alla guida del governo. Dal lancio del suo partito Forza Italia nel 1994, aveva fatto trionfare il modello di “partito-impresa”, spesso usato per definire la sua concezione della politica.

Grande vincitore delle elezioni legislative del 2008 con il suo partito Il Popolo della Libertà, si compiaceva del fatto che nessun parlamentare comunista fosse stato eletto. La trasformazione interna della sinistra avvenne con dolore. Lasciò orfana una grande parte di coloro che si ispiravano al pensiero di Berlinguer. Le riflessioni che emergono nel documentario di Andrea Segre mostrano che è ancora così.

Eppure, dalla fine di settembre e con le manifestazioni di massa organizzate in sostegno a Gaza, quegli ideali hanno trovato una risonanza inedita. «Bisogna trovare nuovi strumenti che non possono essere né quelli dei partiti di allora, né quelli dei partiti di oggi, diventati piccoli comitati d’affari o acceleratori di carriera», afferma il giornalista Claudio Caprara.

È proprio attraverso una mobilitazione dal basso, grazie ai legami militanti che ancora persistono nel tessuto sociale, che l’Italia ha visto scendere in piazza quasi 2 milioni di persone, secondo i dati dei sindacati, in occasione dello sciopero generale di venerdì 3 ottobre. Un evento che esprime solidarietà con la causa palestinese, ma anche un’aspirazione insoddisfatta a una politica popolare, al servizio degli ideali di giustizia e uguaglianza.

 

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