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Borboni, tifo vietato per il Napoli senza capa

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Il Regno di Napoli rinasce allo stadio, tra orgoglio sudista e neonostalgici dell’ultimo re fuggito dalla città. E la polizia sequestra bandiere e striscioni

di Maurizio Zuccari

Bandierone neoborbonico alla stadio. In hp: Povia in un frame del video
Bandierone neoborbonico. In hp: Povia in un frame del video

Spira un silenzio di pietra sui lastroni del monastero di santa Chiara, dove sono sepolti la gran parte dei sovrani napoletani. Compresa l’ultima famiglia regnante – Francesco II e la consorte Maria Sofia, con la figlioletta Maria Pia Cristina, morta ad appena tre mesi – lì riunita solo un trentennio fa, dopo infiniti travagli mortali e ultraterreni. Ma non c’è pace per i Borboni, né per lo stemma che li sovrasta effigiato sul marmo, inventato da Carlo III di Borbone. Il fondatore della dinastia però non mise mai il numero dopo il nome, non sapendo lui stesso come dirsi, tantomeno i sudditi d’un sovrano sgraziato quanti altri mai, a parere dei coèvi. E pure ignorante, a detta degli ambasciatori del tempo. Ma un qualche valore Carlo dovette averlo, se seppe tenersi un regno conquistato agli Asburgo fra intrighi di corte e guerre di successione, a differenza di Franceschiello, l’ultimo re Borbone, che lo perse dopo neanche due anni, poco più d’un secolo dopo. Nonché regalare ai suoi sudditi quel gioiello della reggia di Caserta capace di rivaleggiare con Versailles, oggi nell’abbandono grazie all’ignavia degli ex sudditi coèvi. E quel teatro, il San Carlo, che ancora porta il suo nome, sulla cui volta ammuffa il variopinto simbolo che si beò d’inventare e mirava, gran nasone all’insù, dal palco reale.

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Fuori dai silenzi di tomba e dai loggioni teatrali, lo stemma dei Borboni è tornato a far parlare di sé nel luogo della contemporaneità più distante da essi: gli stadi. Da qualche tempo, infatti, solerti funzionari di polizia sequestrano a man bassa bandiere, sciarpe e striscioni col simbolo della monarchia tracollata con l’unità d’Italia. «Addirittura sfilandole dal collo dei bambini», denuncia Gennaro De Crescenzo, presidente dei movimento neoborbonico. Una onlus che raccoglie online oltre 16mila iscritti e qualche dozzina di sbandieratori alle comparsate commemorative ma qualcosa conta, allo stadio e dal punto di vista elettorale. Un comportamento incomprensibile, si duole il professore – che ha dato mandato ai suoi legali di denunciare gli agenti – e con lui il senatore Bartolomeo Pepe, autore di un’interrogazione al ministro degli Interni sul tema. Tanto più che il Gos (Gruppo operativo sicurezza) che vigila sulle competizioni calcistiche ha dichiarato la piena ammissibilità dei simboli storici nel tifo da stadio. «Per lo stemma borbonico di un’epoca sepolta nei libri di storia da duecentocinquantasette anni ­ – ma ne sono passati 155 dal 1861, anno di caduta della monarchia sotto le bombe a Gaeta – è invece partita la crociata», sintetizza quel campione di giornalismo e diritti che è il Tempo romano. Pure l’ex vincitore di Sanremo Povia – di provata fede interista – ha invitato in un video girato ad hoc i tifosi napoletani a tirare fuori palle e stemma agli stadi. Testuale. Con l’usuale tiritera del Regno del Sud paradiso di bellezza distrutto dai perfidi Savoja e da quel lacchè di Garibaldi e, va da sé, si stava meglio quando si stava peggio.

Inviti all’orgoglio sudista che mal s’acconciano a un’epoca storica morta e sepolta. Come per la bandiera del Sud strapazzata dagli unionisti durante la guerra civile americana, divenuta simbolo d’ogni rivolta antifederale e destrorseria dal Ku Klux Klan in qua, orpello alle stragi d’improvvisati pistoleri. Come per l’ancor più distante e obliata bandiera della Repubblica veneta che si gloriò di sventolare a Lepanto e ora s’ammoscia dietro ai catafalchi leghisti. Avevano ragione Marx e Franceschiello. Il primo a dire che la storia, quando si ripete, è sempre in forma di farsa. L’altro a dire che ai napoletani, che sognavano l’Italia, sarebbero rimasti solo gli occhi per piangere. Ora manco più gli striscioni per tifare Napoli con lo stemma dell’ultimo re che lasciò la città per non arrischiarsi a difenderla dai suoi malfidi sudditi, oggi neonostalgici, più che da Garibaldi che arrivava in treno. E per il Napoli che ha perso la capa della classifica proprio in casa Savoja e manco l’ha ritrovata coi traballanti lumbard, al delitto di lesa maestà s’aggiunge lo scuorno.

www.mauriziozuccari.net

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Giornalista e scrittore, è nato il primo novembre 1963 a Poggio Mirteto, in Sabina, e vive a Roma. Dopo l’alberghiero a Rieti e la leva come ufficiale di complemento a Firenze, si è laureato in scienze politiche alla Sapienza di Roma (Comunismo e titoismo, con Pietro Scoppola, 1994) e si è specializzato in scienze della comunicazione (Il consenso videocratico: masse, media e potere nella transizione dalla partitocrazia alla telecrazia, con Mario Morcellini, 1996). Ha scritto su Paese Sera, il Manifesto, Diario, Medioevo, Archeo, Ragionamenti di Storia (dove ha provato, grazie a documenti inediti, l’uso dei gas da parte dell’esercito italiano nella guerra d’Etiopia). Ha ideato e diretto il mensile Cittànova (1996-97). È stato caporedattore dei periodici d’arte Inside Art e Sofà (2004-2014). È opinionista sul quotidiano Metro e su Agi. Ha pubblicato il Dito sulla piaga. Togliatti e il Pci nella rottura fra Stalin e Tito, 1944-1957, Mursia, 2008. Con questa casa editrice è uscito il romanzo fantastorico Cenere (2010), primo di una trilogia sul mito. Sito www.mauriziozuccari.net.
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