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L’Egitto dei desaparecidos mente ancora su Regeni

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L’uccisione di Giulio Regeni non è un episodio isolato ma fa parte di una serie di violenze poliziesche sistematiche. Nel solo mese di febbraio registrati 155 casi di sparizione forzata

di Mauro Saccol*

Renzi-al-Sisi

In una recente intervista al quotidiano Repubblica, interrogato sul caso Regeni, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha sostenuto come si tratti di un caso isolato e che chi ha compiuto tale atto efferato abbia tutto l’interesse a incrinare i rapporti amichevoli tra Italia ed Egitto. A tal proposito, al-Sisi ha ripetutamente sottolineato il ruolo che il suo paese gioca quale baluardo contro il terrorismo internazionale, soprattutto nel garantire la stabilità regionale in seguito alle crisi irachena, siriana e libica, una visione condivisa dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi.

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Tuttavia, un’analisi più approfondita della realtà socio-politica egiziana pone certamente molti dubbi al riguardo. L’uccisione di Giulio Regeni, difatti, non è un episodio unico, bensì si inserisce all’interno di una serie di violenze, diventate sistematiche a partire da luglio 2013. Inoltre, al contrario di quanto ci si potesse aspettare in seguito all’esposizione mediatica internazionale, negli ultimi due mesi il regime ha intensificato la repressione e le violazioni dei diritti umani hanno assunto proporzioni ancor più preoccupanti.

Innanzitutto, le sparizioni forzate di giovani hanno subito un incremento rispetto al mese di gennaio. L’organizzazione “Stop Forced Disappearances” documenta quotidianamente tali situazioni, postando foto dei giovani coinvolti, tanto che la propria pagina Facebook ha assunto le sembianze di un cimitero virtuale. Il Nadeem Center for Rehabilitation of Victimes of Torture ha pubblicato un report dettagliato sulle violazioni commesse dalla polizia e dagli apparati di sicurezza, stabilendo come nel solo mese di febbraio 2016 vi siano stati 155 casi di sparizione forzata. A testimonianza della gravità del fenomeno, lo scorso 8 febbraio le famiglie di alcune delle persone scomparse hanno indetto una conferenza stampa a Kardasa, nel governatorato di Giza, rivolgendo un appello al mondo intero affinché le si aiuti a fermare tale “crimine abominevole”, mentre nel giorno della festa della mamma – 21 marzo – altre famiglie hanno protestato di fronte al sindacato dei giornalisti al Cairo.

Ciò che colpisce è l’indifferenza con cui vengono arrestati o “rapiti” ragazzi minorenni. La campagna Freedom for the Brave ha riportato, nei giorni 4 e 5 febbraio, la sparizione di quindici studenti ad Alessandria, di cui sei minorenni (e gli altri di età non superiore ai ventuno anni). Pochi giorni dopo, un tribunale militare ha condannato all’ergastolo un bambino di quattro anni con l’accusa di omicidio, salvo poi ammettere l’errore. Il 25 febbraio, il Tribunale Minorile di Minya ha condannato a cinque anni di carcere tre studenti copti di età compresa tra i quindici e i sedici anni per aver insultato l’Islam.

Inoltre, la tortura in carcere e le uccisioni per mano della polizia sono un fenomeno sistematico. Il rapporto del Nadeem Center sottolinea come, a febbraio, si siano registrati 111 casi di uccisione per mano della polizia, 77 casi di tortura e 44 situazioni di negligenza da parte dei medici nel luogo di reclusione. In particolare, il carcere di al-Aqrab (lo Scorpione) è stato recentemente ribattezzato “il cimitero” da numerosi attivisti e dai familiari dei carcerati, a causa delle condizioni inumane in cui vengono tenuti i prigionieri e della facilità con cui si trova la morte all’interno della struttura. L’8 febbraio un gruppo di giovani ha iniziato uno sciopero della fame – sulla scia di quanto avvenuto in altre carceri – per protestare contro i maltrattamenti subiti, il rincaro dei prezzi di cibo e vestiti e il blocco delle visite, situazione che ha portato alcune famiglie a scontrarsi con la polizia stessa. Nelle ultime settimane, inoltre, l’Associazione delle Famiglie dei Prigionieri di al-Aqrab ha lanciato sui social la campagna “Shut Down Aqrab” (Chiudete Aqrab!), ribellandosi alle violenze commesse nel carcere e ai ripetuti divieti di poter visitare i propri familiari.

Nel tentativo di silenziare le voci di chi diffonde i dati della repressione, il regime ha intensificato i propri sforzi repressivi sulle ONG. A metà febbraio, il succitato Nadeem Center, che dal 1993 si occupa di riabilitare le vittime delle violenze poliziesche e della tortura, ha ricevuto un ordine di chiusura da parte del Ministero della Salute poiché le attività che conduceva non ricadevano nell’ambito di quelle previste dalla licenza ottenuta – ossia mediche. Il carattere politico della decisione è stato sottolineato dalla direttrice dell’organizzazione, Aida Seif al-Dawla, la quale ha sostenuto come tale azione si inserisca all’interno di una campagna delle forze di sicurezza contro gli attivisti. In tale ottica va vista anche la decisione, presa da una corte del Cairo, di riaprire il procedimento 173/2011, relativo al finanziamento esterno delle ONG, e di valutare il congelamento dei beni di quattro attivisti, tra cui Hossam Bahgat e Gamal Eid, accusati di aver ricevuto illegalmente fondi per gestire le proprie organizzazioni per i diritti umani.

Tali ultimi sviluppi hanno generato addirittura la reazione del vice-presidente statunitense, John Kerry, il quale si è detto preoccupato per la situazione dei diritti umani in Egitto. Ciononostante, alcuni parlamentari hanno risposto, accusandolo di interferire negli affari interni del paese e di essere parte di una congiura, ordita dall’Occidente, per diffondere il caos in Egitto.

A tal proposito, nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha approvato una mozione che critica duramente il regime egiziano, le violazioni commesse dagli apparati di polizia e di sicurezza, gli arresti arbitrari di giovani e degli esponenti di movimenti e associazioni. Particolarmente importante è la richiesta, ai singoli stati membri, di interrompere la vendita di armi e sistemi di sicurezza che vengono poi utilizzati per reprimere la popolazione. Inoltre, la mozione sottolinea come la mancanza di diritti e le violenze, unite all’impunità di cui godono gli apparati di sicurezza, costituiscano i semi su cui germoglia il terrorismo.

Di conseguenza, l’attuale situazione egiziana difficilmente potrà portare il paese sulla via della stabilità e, soprattutto, fermare il terrorismo internazionale. Al contrario, il paese appare quanto mai instabile a livello politico. Nonostante il pugno di ferro e la retorica nazionalista, la legittimità di al-Sisi sta raggiungendo il punto più basso degli ultimi anni. Recentemente, in un discorso sull’economia egiziana, il presidente ha affermato come non esiterebbe a mettersi in vendita per salvare l’Egitto, col risultato che dopo poche ore un utente ha postato su eBay un annuncio in cui al-Sisi figurava “in vendita”. Inoltre, lo stesso presidente, nel luglio 2014, aveva lanciato il Tahya Fund (Fondo Viva l’Egitto), all’interno della campagna “Say good morning to Egypt”, in cui chiedeva a ogni egiziano di inviare un sms ogni giorno, del valore di una lira egiziana, allo scopo di sostenere l’economia. Tuttavia, secondo un sondaggio dell’agenzia Baseera, il 21 percento della popolazione non ha mai sentito nominare tale iniziativa e il 67 percento non ha mai donato, mentre solo il 6 percento ha inviato un messaggio al giorno.

Infine, una fonte – che per ragioni di sicurezza chiede di rimanere anonima – ha rivelato all’autore come molti intellettuali, attivisti e oppositori politici temano un collasso del regime per le ragioni succitate e a causa delle lotte per il potere interne, trasformando l’Egitto in uno stato fallito sulla falsa riga del Pakistan o dello Yemen, aprendo scenari politici dalle conseguenze incalcolabili per tutta la regione mediorientale, africana e per l’Europa stessa.

In conclusione, la dura repressione nei confronti di giovani e attivisti, l’arbitrarietà con cui agiscono le forze di sicurezza e la diminuita legittimità del regime soprattutto agli occhi delle generazioni adulte – tradizionalmente restie a protestare – costituiscono un mix di potenziale instabilità che potrebbe portare il paese in una situazione di caos. La tutela dei diritti umani, quindi, rappresenta la necessità primaria per la stabilità regionale e internazionale, il fattore chiave per quella sicurezza che sta a cuore a tutti.

 

*Dottorando in Democrazia e diritti umani presso l’Università di Genova

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