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Salva il pianeta, non mangiare pomodori in inverno

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Chilometri di plastica ricoprono le serre di pomodori ad Almería, orto d’Europa. Che fine fa quella plastica?

di Marina Zenobio

Da dove viene il cibo che finisce nella nostra bocca? Ponendoci questa domanda arriveremo di certo alla triste conclusione che, per elaborare i nostri piatti, nella migliore delle ipotesi qualcuno è stato malpagato, nella peggiore qualcuno è stato maltrattato.

La conclusione è che la nostra voracità alimentare, il voler consumare qualsiasi tipo di prodotto per tutto l’anno compresi quelli fuori stagione, frutti appena colti e ben esposti nelle frutterie e nei supermercati dietro casa, ha un costo molto caro e non solo il prezzo che paghiamo per comprare prodotti fuori stagione, ma il costo a livello ambientale.

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Quattro giovani francesi del collettivo Le Tatou (Hugo, Ludo, John e Franck) si sono fatti la stessa domanda e la risposta è stata un cortometraggio di otto minuti partendo col chiedersi in concreto dove vengono i pomodori che inondano il mercato europeo e in quali condizioni sono prodotti. Si sono spostati fino in Spagna, ad Almería, l’orto d’Europa, per verificare in situ che la richiesta sempre crescente del continente di consumare pomodori tutto l’anno, e non solo da giugno a ottobre come sarebbe giusto, ha portato la provincia andalusa ad avere la più alta concentrazione di serre al mondo (44.000 metri quadrati). Al principio una buona idea per sfruttare al massimo le risorse. Il problema è che il mare di plastica che ricopre le coltivazioni (una superficie di circa 200 chilometri) viene cambiato spesso, ma non riciclato. La maggior parte di quella plastica viene bruciata e ciò che ne resto può finire sulla vicina spiaggia e poi al mare, oppure nel Parco naturale di Cabo de Gata-Nijar (che dovrebbe essere protetto) situato nelle vicinanze.

Le Tatou nel loro corto, che ha superato le 600 mila visioni, spiega anche che per produrre tanti pomodori i produttori hanno dovuto creare impianti di desalinizzazione dell’acqua marina per avere acqua dolce con cui innaffiare le coltivazioni. La desalinizzazione ha un enorme impatto ambientale perché richiede l’uso di molta energia, e perché il sale estratto viene gettato di nuovo in mare. Questo pregiudica la fauna e la flora marina. I produttori hanno dovuto anche cercare acqua dolce in pozzi scavati a profondità che possono raggiungere i 1.500 metri. Significa che estraggono acqua da falde già molto impoverite, e il 50 per cento dei pozzi sono illegali.

Secondo il documentario, frutto della collaborazione di Le Tatou con ADEME (Agenzia per il controllo dell’ambiente e dell’energia – istituzione pubblica francese), i politici spagnoli locali sono a conoscenza di questi ed altri eccessi, come lo sfruttamento di migliaia di lavoratori immigrati, metà dei quali illegali quindi molto più ricattabili. Ma le autorità preferiscono guardare dall’altra parte.

E se l’ecosistema andaluso non ti interessa, e se la situazione dei lavoratori immigrati ti annoia, il video offre un altro importante argomento affinché si abbandoni definitivamente il consumo di pomodori provenienti dalla Spagna: 80 per cento di quei pomodori contento residui di pesticidi, il 7 per cento di essi con livelli superiori al tollerabile.

Il video però contiene un’altra curiosità: Le Tatou non danno la colpa ai produttori, né ai politici, né a chi trasporta e distribuisce il prodotto, tantomeno se la prendono con i commercianti. La responsabilità ricade su di noi, i consumatori, che accettiamo qualsiasi cosa pur di portare in bocca un pomodoro in pieno inverno, pomodoro che quasi sempre non sa di niente. L’invito è a consumare in generale prodotti di stagione, e magari cominciare a leggere le etichette e chiedersi seriamente: ma da dove viene questo cibo?

Un mare di serre ad Almería, Andalusia, Spagna
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