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Giuseppe Uva, non è Stato nessuno. La sentenza pericolosa

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Omicidio e sequestro di Giuseppe Uva: assolti anche in appello i carabinieri e i poliziotti. Lucia Uva ricorrerà in appello

Una sentenza pericolosa quella che ha mandato assolti in appello tutti gli imputati per l’omicidio di Giuseppe Uva. A poco meno di dieci anni dalla morte dell’operaio quarantatreenne, i due carabinieri e i sei poliziotti finiti imputati per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona, ancora una volta sono stati ritenuti innocenti: non avrebbero picchiato l’operaio di Varese che, la sera del 13 giugno 2008, sorpreso con un amico a trascinare in mezzo alla strada cassonetti e transenne di un cantiere, portarono in caserma. Operaio che la mattina dopo, trasferito in ospedale per un Tso, morì. A deciderlo è stata la prima Corte d’Assise d’Appello di Milano, presidente Maria Grazia Bernini e giudice a latere Barbara Bellerio, al termine di una camera di consiglio di circa quattro ore e mezzo e un processo durato sei udienze. Processo che ha visto il pg Massimo Gaballo chiedere di ribaltare la sentenza di primo grado e di condanne a 13 anni i due militari, Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco, e a 10 anni e mezzo gli agenti Giocchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano. Le difese, al contrario, hanno insistito: vanno di nuovo assolti, nessuna violenza. Così quando i giudici hanno letto il verdetto, in aula è scoppiato il finimondo. Da una parte i molti abbracci e la commozione dei legali e dei loro assistiti e dall’altra le urla di rabbia mista ad amarezza dei familiari di Uva. Con Angela, la nipote che ha dato in escandescenze: «Sono dieci anni che infangano il nome dello zio. La legge non è uguale per tutti». Poi, rivolgendosi ad agenti e poliziotti: «Auguri ai vostri figli che hanno dei brutti genitori. Vergognatevi, non avete avuto rispetto». Subito la reazione di uno dei difensori, Pietro Porciani, che pure lui, prima che fosse trascinata fuori, alzando la voce le ha ripetuto: «Non si permetta, non si permetta». Lucia Uva, la sorella dell’operaio, è invece sgusciata da dietro il banco dove era seduta accanto agli avvocati di parte civile e si è diretta verso il sostituto pg per ringraziarlo: «Per la prima volta abbiamo avuto la procura dalla nostra parte. Per me è come se avessi già vinto». Fuori dall’aula, con il sottofondo delle grida di Angela, uno dei poliziotti, stringendo i pugni e battendoli contro il muro, ha preso a ripetere. «Ecco è la seconda volta che ci assolvono. È la seconda volta che dicono che siamo innocenti». Infine, l’avvocato Luigi Marsico, che ha riassunto il pensiero delle difese: «È stato dimostrato anche oggi che carabinieri e i poliziotti hanno fatto solamente il loro dovere. E questa è la cosa più importante: quella sera hanno fatto quel che dovevano fare». La corte d’Assise D’Appello si è presa 90 giorni per depositare le motivazioni con cui spiegherà perché ha ritenuto di assolvere tutti con la formula più ampia possibile, anche dall’accusa di sequestro di persona. Poi ci si attende il terzo round: Lucia Uva di certo andrà avanti nella sua «battaglia» in nome del fratello. Ha annunciato ricorso in Cassazione.

Quella notte a Varese

Siamo a Varese, ore 2,55 del 14 Giugno 2008. In una stanza del comando provinciale dei carabinieri di via Aurelio Saffi si trova Giuseppe Uva denunciato a piede libero insieme al suo amico Alberto Biggiogero per “disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone”. La vicenda è ricordata sul sito di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, che segue questo processo e molti casi simili.

Giuseppe quella sera era in giro per la città con il suo amico “Biggio”. Un po’ alticci i due arrivano all’altezza di via Dandolo e per goliardia spostano alcune transenne con l’intenzione di chiudere la strada al traffico. Ridono, urlano, fanno confusione, troppo per gli abitanti del quartiere che chiamano i carabinieri. Sul luogo arriva una gazzella con a bordo il brigadiere Paolo Righetto e l’appuntato capo Stefano Dal Bosco. La fase del fermo e dell’arresto raccontata da Biggiogero discorda con quella messa a verbale: all’arrivo della gazzella il brigadiere Righetto scende dalla macchina urlando: ”Uva proprio te cercavo stanotte, questa non te la faccio passare liscia, questa te la faccio pagare!”. Inizia quello strano inseguimento a piedi tra Uva e il brigadiere che quando lo raggiunge lo scaraventa a terra e comincia a malmenarlo. Alberto interviene ma viene spinto via e finisce addosso all’altro agente che lo schiaffeggia accusandolo di averlo urtato volontariamente. Nel frattempo Uva viene trascinato verso la gazzella e scaraventato sui sedili posteriori. Il brigadiere continuava a inveire contro di lui prendendolo a calci e pugni. Giuseppe chiede aiuto ma Alberto non può intervenire in quanto immobilizzato dal secondo agente. In quel frangente arrivano due volanti della polizia e viene intimato a Biggiogero di salire in macchina. Lui chiede di andare con il suo amico ma la polizia, per tutta risposta gli mostra il manganello e gli chiede se abbia voglia di provarlo. A quel punto la gazzella con Giuseppe parte e Alberto non vedrà più il suo amico vivo. In caserma Alberto sente distintamente le urla dell’amico, ogni volta che chiede di smetterla con il pestaggio viene minacciato dagli agenti fino a che non decide di chiamare il 118 dal suo cellulare per richiedere un ambulanza. L’operatore del 118 dice ad Alberto che avrebbe mandato l’ambulanza ma al termine della telefonata anziché inviare il mezzo il 118 chiama la caserma per avere conferma. Gli viene risposto che non c’è bisogno di alcuna ambulanza e che la chiamata è stata effettuata da due ubriachi a cui adesso avrebbero tolto il cellulare. Alle 6 sono gli stessi carabinieri a chiamare il 118 per far portar via Giuseppe Uva. Alle 11.10, otto ore dopo l’arresto e quattro dopo il ricovero Uva è un uomo morto.

No, non era malasanità ma malapolizia

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In primo grado i Pubblici Ministeri Abate e Arduini portano sul banco degli imputati gli psichiatri Carlo Fraticelli, Matteo Catenazzi ed Enrica Finazzi con l’accusa di omicidio colposo. Per i Pm la morte di Giuseppe Uva è da ricondurre a colpa medica. La tesi dell’accusa era che Giuseppe fosse morto per l’interazione dei farmaci sedativi assunti in ospedale e il suo pregresso stato di ubriachezza. Perizie e controperizie fatte anche dopo la riesumazione del corpo dimostreranno che la cura somministrata in ospedale era corretta e che il motivo della morte di Giuseppe Uva non era da ricercarsi nella parte medica inquisita. Il giudice Muscato assolve i medici dall’accusa di omicidio colposo e nelle motivazioni non manca di sollevare critiche all’operato del Pm. Durante tutto il processo non è mai stato accertato cosa sia accaduto nella caserma di via Saffi e non è mai stato ascoltato il testimone chiave, Alberto Biggiogero. In data 11 marzo 2014 viene respinta dal giudice Battarino la richiesta avanzata dai due Pm di archiviazione nei confronti di due carabinieri e sei poliziotti. Il 20 marzo quindi i due Pm si vedono obbligati a formalizzare l’incriminazione per gli otto agenti per omicidio preterintenzionale, arresto illegale e abuso d’autorità, solo che secondo il Procuratore Capo facente funzioni Felice Isnardi i due Pm l’avrebbero si fatto ma in modo tale da costruire imputazioni deboli per illogicità e contraddittorietà, con il risultato di rischiare di minare in partenza un processo nel quale non credono e solo il gip li ha obbligati. Per questo il Procuratore Isnardi toglie il fascicolo ai due Pm con la convinzione che il capo d’imputazione formulato “non abbia rispettato le imposizioni imposte dall’ordinanza del Gip”.

Il 20 ottobre 2014 dopo sei anni dalla morte di Giuseppe Uva è partito un processo che vede sul banco degli imputati quegli agenti che lo hanno arrestato e tenuto in custodia quella notte. Tutti i capi d’imputazione escluso l’omicidio preterintenzionale andranno in prescrizione a dicembre 2015. La sentenza di primo grado arriverà nel 2016 e ieri l’ennesima pietra tombale su verità e giustizia. Il fatto non sussiste. In alcune città sono apparsi degli striscioni di solidarietà con la famiglia Uva. Radicali e Rifondazione si augurano che la Cassazione cancelli una «sentenza pericolosa», come l’ha definita Fabio Ambrosetti, l’avvocato dei familiari di Giuseppe Uva.

 

 

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