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Rappresaglie e nakba: Netanyahu passa all’incasso

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Dagli Usa il veto alla Palestina all’Onu e nuovi aiuti militari a Israele. La soluzione finale nella Striscia è ormai prossima

Dopo la rappresaglia dimostrativa all’Iran gli Usa mettono l’ennesimo veto all’ingresso della Palestina all’Onu e il Congresso approva miliardi di aiuti militari a Israele. Netanyahu potrà fare tabula rasa di Gaza o quel che ne resta, spianando l’ultimo bastione di resistenza a Rafah. La soluzione finale per i palestinesi nella Striscia è ormai a portata di mano e l’Apocalisse s’appressa, a singhiozzo.

A Isfahan c’è una gran bella piazza, Naqs-e-Jahan, tra le più grandi al mondo e patrimonio Unesco dell’umanità. Una famosa moschea arabescata di ricami calligrafici azzurri, Lotfollah, che s’affaccia sulla piazza, e un magnifico ponte, Khajou, sullo Zaiandè. A Isfahan, non distante da Teheran, c’è pure la più importante comunità cristiana – armena – d’Iran. A Isfahan l’antico si mescola col moderno: da lì partono i treni carichi di pistacchi e c’è un impianto nucleare. Era questo l’obiettivo dei tre missili lanciati da Israele il 19 aprile, giorno del compleanno della guida suprema del paese, l’ayatollah Ali Khamenei, come ritorsione all’attacco missilistico dei giorni precedenti. Sembra che i missili, preceduti da un nugolo di droni, come d’uopo, non abbiamo centrato altro, oltre al centro radar delle difese missilistiche della base militare a protezione dell’impianto. Limitati anche i danni a una base dei pasdaran in Iraq, paese da dove è presumibilmente partito l’attacco, altro obiettivo della rappresaglia. Una dimostrazione di forza assai limitata, per gli standard israeliani, quella andata in onda, e perciò tutti a gettare acqua sul fuoco del botta e risposta che infiamma l’aera, di suo già calda. Ayatollah compresi, per non scottarsi troppo e bruciare del tutto.

L’attacco dimostrativo israeliano, ampiamente previsto ma affatto scontato, arriva alla vigilia dello sblocco del congresso Usa agli aiutini militari a Israele, Taiwan e Ucraina – quasi cento miliardi di dollari, nel complesso – e all’indomani dell’ennesimo veto Usa sull’ingresso della Palestina all’Onu quale stato di pieno diritto, anziché mero osservatore com’è attualmente. Una mozione approvata da ogni altro membro del Consiglio di sicurezza, con l’astensione della Gran Bretagna e della Svizzera, ma rigettata appunto dagli Usa, e dunque rimasta lettera morta. Netanyahu passa dunque all’incasso. Benché secondo gli ultimi sondaggi ben oltre la metà degli israeliani vorrebbe che si togliesse subito dalle scatole, lui e le sue mene guerresche – ma non si vede chi potrebbe tirare fuori il paese dal pantano, non certo l’oscillante Yair Lapid – il marchese del grillo di Tel Aviv tira dritto, come suo costume.

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Coi soldini e le armi Usa potrà finalmente fare tabula rasa di Gaza o quel che ne resta, spianando l’ultimo bastione di resistenza a Rafah. La soluzione finale prospettata per i palestinesi nella Striscia è ormai a portata di mano, nonostante le forti perdite subite dall’esercito israeliano, del resto anch’esse previste: poco meno di duemila tra morti e feriti tra le forze dell’Idf, a fronte di oltre 30mila vittime palestinesi, un terzo dei quali minori, difficilmente inquadrabili tra le file di Hamas anche per i più sfacciati commentatori pro Sion. Lasciare o perire, questa la scelta per i palestinesi che nonostante tutto resistono nella Striscia e in Cisgiordania, dove nei campi profughi la violenza dell’esercito e dei paramilitari israeliani è all’ordine del giorno, seppure lontano dai riflettori. Insomma, il marchese può gongolare, non ha ancora estirpato la malapianta palestinese dalla terra promessa e concessa, ma ha dimostrato ai beceri ayatollah che i suoi missili posso giungere ovunque e con bel altra efficacia dei razzi islamici. E, quel che più conta, ha rinsaldato l’amicizia col suo mentore d’oltreoceano che il genocidio in corso a Gaza aveva messo in discussione. Eppoi l’opzione militare totale resta sul tappeto, buon ultima. E poco importa che, come diceva Napoleone, anche i piani migliori saltano dopo un’ora di battaglia. Il marchese tira dritto, il mondo è ai suoi piedi anche se spinge sull’acceleratore e sbaglia i calcoli nell’apocalisse che s’appressa, a singhiozzo. I due compari, di qua e di là l’Oceano, forse cadranno insieme ma con loro rischia di ruzzolare dalla balconata chi fischia, tifa e se la dorme: l’Occidente che li segue come i ciechi di Brueghel.

 

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Giornalista e scrittore, è nato il primo novembre 1963 a Poggio Mirteto, in Sabina, e vive a Roma. Dopo l’alberghiero a Rieti e la leva come ufficiale di complemento a Firenze, si è laureato in scienze politiche alla Sapienza di Roma (Comunismo e titoismo, con Pietro Scoppola, 1994) e si è specializzato in scienze della comunicazione (Il consenso videocratico: masse, media e potere nella transizione dalla partitocrazia alla telecrazia, con Mario Morcellini, 1996). Ha scritto su Paese Sera, il Manifesto, Diario, Medioevo, Archeo, Ragionamenti di Storia (dove ha provato, grazie a documenti inediti, l’uso dei gas da parte dell’esercito italiano nella guerra d’Etiopia). Ha ideato e diretto il mensile Cittànova (1996-97). È stato caporedattore dei periodici d’arte Inside Art e Sofà (2004-2014). È opinionista sul quotidiano Metro e su Agi. Ha pubblicato il Dito sulla piaga. Togliatti e il Pci nella rottura fra Stalin e Tito, 1944-1957, Mursia, 2008. Con questa casa editrice è uscito il romanzo fantastorico Cenere (2010), primo di una trilogia sul mito. Sito www.mauriziozuccari.net.
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