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Vanessa e Greta, chi le ha mandate allo sbando?

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Le Ong hanno regole rigidissime sull’invio di personale all’estero e chi ha spedito in Siria le due cooperanti italiane non ne avrebbe seguita nemmeno una

di Barbara Viale

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Due ragazze dalla faccia pulita, due ventenni che vogliono cambiare il mondo e hanno trovato una causa per cui vale la pena lottare. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo però, seppure con le migliori intenzioni, non hanno ancora terminato gli studi, hanno qualche esperienza di volontariato all’estero ma non in teatri di guerra e soprattutto non hanno un ufficio locale a cui appoggiarsi.

Da donna condivido la paura e l’ansia dei genitori e delle ragazze, mi auguro che siano vive e che possano tornare a casa dimenticando presto questo trauma. Da operatrice umanitaria però mi lascia profondamente perplessa il fatto che una onlus (“Rosa di Damasco” talmente piccola da non essere nemmeno reperibile su internet, tra l’altro) possa supportare una neonata associazione le cui co-fondatrici (ventenni) decidono di andare sole e senza un training adeguato in un territorio estremamente pericoloso, senza una rete di protezione sufficiente.

ONG con comprovata esperienza e che operano da anni nel settore hanno regole rigidissime sull’invio di personale all’estero: sulle emergenze solitamente non vengono impiegati giovani senza esperienza e in ogni caso viene offerto un training molto dettagliato su tutte le procedure da seguire. Inoltre è una pratica comune sottolineare la propria posizione super partes, proprio per evitare ripercussioni da una o dall’altra fazione, mentre l’associazione Horryaty è apertamente schierata con i ribelli al regime di Assad.

Leggendo quello che offre internet, si trovano diversi punti di vista: Shady Hammady, dalle pagine del Fatto, parla di due “ragazze coraggiose da cui trarre esempio”, il Giornale accusa Roberto Andervill, fondatore con Greta e Vanessa dell’associazione Horryaty con cui hanno fatto raccolta fondi per la Siria, di essere un “cattivo maestro” che le ha abbindolate e lasciate sole in un luogo estremamente pericoloso.

Pare che a dare l’allarme sia stato Daniele Raineri, giornalista di dubbia fama, i cui scoop sono più volte stati smascherati da testate internazionali. Pare che lui fosse con loro nella casa del capo del Consiglio Rivoluzionario locale, dove le ragazze erano ospitate e sia riuscito a scappare. Pare.

Per chi ha un po’ di esperienza nel campo della cooperazione questa storia ha tutti i presupposti per finire malissimo. Lo dico con enorme rammarico e spero con tutta me stessa di sbagliarmi.

Quello che però molto spesso la gente di buoni principi e buona volontà non capisce o non sa, è che se esistono procedure di safety and security e accordi di collaborazione è proprio perché si cerca di garantire al personale tutta la sicurezza possibile considerato il luogo di intervento. Come queste ragazze siano entrate in Siria non è chiaro, forse attraverso la Turchia come pare abbia spesso fatto Raineri. Di certo c’è che è un atto criminale da parte di quel mondo di adulti coinvolti lasciare che due ragazze poco più che adolescenti vadano incontro a una prova così pericolosa. A vent’anni si ha lo spirito d’avventura e si è sprezzanti del pericolo, è un dato di fatto. Ma queste ragazze avevano famiglie (che presumo si siano prestate a pagare un biglietto aereo), una rete attraverso la quale hanno fatto raccolta fondi, persino la “Rosa di Damasco”, perché nessuno ha detto le cose come stavano? Che la Siria era troppo pericolosa e che gli aiuti vengono inviati a Organizzazioni specializzate nella consegna di aiuti alimentari, kit di primo soccorso e di purificazione dell’acqua?

Condivido la posizione di Hammady e di Severgnini che sul Corriere scrive di “due figlie dell’Italia buona e non turiste del rischio” e condanno, per quel che può valere, gli attachi di coloro che si sono scatenati contro le due ragazze sui social networks, le fila dei “Ma cosa ci sono andate a fare” non si assottiglieranno mai, temo.

E’ vero, sono ragazze coraggiose, ma né Hammady né Severgnini, sono stati in grado di definire (ed è il punto nodale della questione) la ratio tra rischio/probabilità di successo. A quanto si capisce queste ragazze sono partite con una valigia piena di kit da distribuire e per insegnare alla popolazione locale a depurare l’acqua e offrire un primo soccorso. Non un camion, un container, un cargo, il loro bagaglio. Nessuna organizzazione seria consente ai propri cooperanti di prendere un rischio enorme per un ritorno così modesto.

Ragazze coraggiose, è vero, e spero che questa esperienza possa essere superata e di poterle un giorno conoscere nei panni di colleghe, ma quello che insegnano a noi, all’inizio, è che perché il coraggio abbia un senso deve essere gestito, il martirio è un concetto romantico ma che purtroppo non serve a nessuno.

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