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Sei donna e fai sport? In Italia puoi solo essere una dilettante

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Una petizione on line lanciata dalle rugbiste della All Reds denuncia i regolamenti del Coni che in Italia condannano le atlete al dilettantismo solo perché donne

Di Marco Vulcano

coniQuando il presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, Carlo Tavecchio, appena eletto ha confessato come “finora  si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio”, le sue frasi sono subito state stroncate da un unanime coro i fischi e polemiche. Certo, è facile bollare come sessista un personaggio che poco tempo prima era balzato alla notorietà internazionale per aver affermato che i neri mangiano le banane, lasciando sottintendere che siano più o meno scimmie. Eppure, sulle donne, Tavecchio non ha fatto altro che squarciare il velo di ipocrisia che avvolge il mondo dello sport professionistico, ammettendo candidamente come stanno le cose. In Italia, ancora oggi, le donne sono escluse dal professionismo sportivo.

La femminile della All Reds Rugby Roma, squadra che «promuove  lo sport  popolare  come  momento  di  aggregazione  fondato sull’antifascismo,  antirazzismo  ed  antisessismo», ha lanciato on line una lettera-petizione indirizzata al presidente del Coni, Giovanni Malagò, con la quale chiedono di rimuovere gli ostacoli esistenti alla parità di trattamento tra uomini e donne.

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«Secondo la legge 3 marzo 1981 n. 9 – scrivono le rugbiste – lo status di “sportivo professionista”, diverso da quello di “dilettante”, è definito dalle singole federazioni sportive nazionali, che dovrebbero osservare le direttive stabilite dal Coni. A 34 anni dall’entrata in vigore di questa legge, però, il Coni non ha ancora chiarito cosa distingue l’attività professionistica da quella dilettantistica e la mancanza di un chiarimento ha determinato una grave discriminazione, penalizzando le donne. Molte federazioni sportive, infatti, hanno escluso esplicitamente le donne dall’area del professionismo: il caso più eclatante è quello del calcio, ma anche la pallacanestro pone molti limiti, non permettendo alle donne la partecipazione ai campionati nazionali».

Il principio, dunque, è semplice: se ti alleni una vita e raggiungi buoni risultati, sei comunque condannata a restare una dilettante solo perché sei donna. Sembrerebbe di stare nell’Ottocento, e invece no. Siamo nell’Italia del 2015.

Una risoluzione del Parlamento Europeo risalente al 2003 prevede che gli Stati membri dell’Unione Europea assicurino alle donne e agli uomini uguali condizioni di accesso alla pratica sportiva rimuovendo, nelle discipline di alto livello, la distinzione tra pratiche maschili e femminili. L’Italia però non si è mai adeguata a questa direttiva. Nel Bel Paese il “ce lo chiede l’Europa” vale evidentemente solo per le riforme che odorano di macelleria sociale, ma intanto il mancato riconoscimento dello status di professioniste condanna le atlete al dilettantismo obbligatorio impedendo loro di accedere ai diritti di cui godono gli sportivi maschi, come la previdenza, l’assistenza sanitaria, la pensione o la maternità.

In soli due giorni la petizione delle giocatrici di rugby ha già raggiunto più di 6000 sostenitori, destinati a crescere vorticosamente.

Nella loro petizione le atlete parlano espressamente di «regolamenti sessisti» ascrivibili al Coni, al cui presidente chiedono provocatoriamente se vuole davvero che l’ente da lui presieduto rimanga l’ultimo presidio della disuguaglianza di genere nel nostro Paese.

La femme est la proletarie de l’homme, scriveva la militante socialista Flora Tristan due secoli fa. Al Coni devono averla presa alla lettera. Nel frattempo, in attesa che le donne della All Red e tutte le sportive d’Italia ricevano una risposta, speriamo che la notizia non si diffonda troppo, altrimenti gli Usa potrebbero bombardarci come hanno fatto coi talebani, che quanto a concezione della donna evidentemente non differiscono troppo dal nostro mondo dello sport.

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