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Razzismo, il linguaggio che uccide

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Dire che gli scafisti sono negrieri significa dire che quelle persone sono schiavi. Significa escludere  la libera decisione di ciascuno di emigrare, le sue motivazioni, le sue ragioni

di Mattia Pelli

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“Negrieri”, “Mercanti di carne umana”: sono soltanto due degli appellativi riferiti agli scafisti (coloro che trasportano i migranti attraverso il canale di Sicilia) che si sentono in continuazione in questi giorni.

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E dietro le parole, come spesso accade, si nascondono trappole, costruzioni ideologiche, interpretazioni che — nascoste dietro a una supposta neutralità — avvelenano il dibattito in partenza, portanto la discussione su un crinale segnato fin dall’inizio dalla parzialità, dall’interpretazione errata.

E’ stato il caso, per esempio, del termine clandestino, affermatosi in Italia nel corso degli anni ’90 per descrivere gli immigrati senza documenti. Uno scivolamento semantico per niente innocente ha portato a poco a poco a sovrappore questo termine a quello di “criminale”, equiparando il migrante approdato nel nostro paese senza permesso di soggiorno a un poco di buono, tendenzialmente pronto a delinquere.

Lo stesso vale per il termine di origine burocratica extracomunitario.

Un’assurdità. Come se il fatto di scappare da guerre e povertà possa essere considerato di per sè un atteggimento criminale.

Eppure la strategia ha funzionato: l’accento negativo dato alla parola clandestino ha facilitato e giustificato la lotta contro la “clandestinità”, additata come fonte di microcriminalità e insicurezza, divenuta argomento ideale di tante campagne elettorali riuscite.

Il “reato di clandestinità”, uno dei suoi frutti più velenosi, è stato fortunatamente abolito nel 2014.

Di fronte alla strage di migranti nel Mediterraneo i media mainstream rispolverano oggi termini come “mercanti di schiavi”, “mercanti di carne umana” che fanno riferimento alla tratta degli schiavi, calcando i toni, scandalizzandosi e strepitando contro quelli che vengono additati come colpevoli delle morti in mare e della migrazione di massa dalle coste libiche: gli scafisti.

Ma dietro lo strepito c’è la trappola; è pronta l’autoassoluzione.

Da una parte essa consiste nell’individuare negli esecutori materiali — dipinti a tinte fosche ricorrendo a paragoni storici fuori luogo — i colpevoli per lasciare nell’ombra i mandanti.

Questi ultimi siedono tranquilli sulle loro poltrone dorate di FMI e Banca Mondiale, nei consigli di amministrazione delle grandi multinazionali petrolifere o minerarie, nei centri del neocolonialismo che hanno spolpato ben bene l’osso africano, finanziando lautamente ditattori e giunte militari.

I migranti seguono la direzione presa dalle risorse di cui l’Occidente si è appropriato con il furto.

Cosa dovrebbero fare l’Italia e l’Europa?

Dei traghetti. A 20 Euro l’andata e 20 Euro il ritorno.

Ma poi c’è una trappola più sottile che si cela dietro il ricorso al paragone con la tratta.

Dire che gli scafisti sono negrieri, significa dire che le persone da loro trasportate sono schiavi. E dire che i migranti sono schiavi vuol dire privarli della loro soggettività, della loro cosciente decisione di emigrare.

Significa considerarli delle pedine nelle mani di altri, una massa amorfa e senza individualità, manipolata.

Da questo orizzonte viene esclusa la libera decisione di ciascuno di emigrare, le sue motivazioni, le sue ragioni. Sono schiavi, quindi mossi dall’esterno.

Inutile dunque analizzare i motivi per i quali hanno deciso di partire. Inutile dare ad essi la dignità che meritano.

Facile, in questo modo, evitare che la solidarietà che si deve a ogni individuo e alla sua umanità prenda la strada dell’accoglienza.

Non sono uomini, donne, bambini che si muovono, sono corpi vuoti.

Che importanza può avere la vita di corpi vuoti?

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