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L’irrazionale danza di Jay-Jay Okocha

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okocha

Aveva vent’anni quando si ritrovò a tu per tu con Oliver Kahn. Poteva tirare o dribblarlo, scelse di fare ciò che gli veniva più naturale:  Jay-Jay Okocha iniziò a danzare

di Carlo Perigli

okochaÈ il 31 agosto 1993, quinta giornata della Bundesliga. L’Eintracht Francoforte sta battendo i rivali del Karlshue per due a uno, quando Toppmoller, allenatore dei padroni di casa, gli fa segno di levarsi la tuta per entrare in campo. «Ora vai dentro e tieni il pallone, dobbiamo guadagnare minuti». Okocha annuisce e si toglie la casacca, con il numero 12 che si scopre sulle spalle. Non è il numero che sognava, ma per ora non gli dà molta importanza. Pensa che la panchina gli stava stretta, che avrebbe voluto giocare dall’inizio, e che nei pochi minuti che rimangono vuole fare di tutto per conquistare la Germania con la sua danza tribale.

È un pensiero fisso, che lo accompagna da quando, nell’estate del 1990, arrivò in Germania dalla Nigeria per festeggiare l’ottenimento del diploma. Ad aspettarlo a Neunrirchen c’erano degli amici d’infanzia e due settimane all’insegna del relax. E del calcio, perché senza un pallone tra i piedi Augustine non ci sapeva stare. Gli strascichi della guerra, la povertà, la fame, l’avidità di multinazionali e di elite compiacenti, per i ragazzi di Enugu, ex capitale dello Stato del Biafra, c’era solo un rimedio per passare la giornata con un briciolo di allegria. «Giocavamo con qualsiasi cosa, qualsiasi cosa vagamente rotonda. Poi quando abbiamo visto per la prima volta un pallone, bé, è stato fantastico».

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Ma mentre gli altri giocano, Okocha danza. Mentre i bambini più bravi imitano i campioni prodigandosi in finte funamboliche, Okocha inventa un passo tutto suo: irrazionale, elegante, funambolico, assurdo, anni dopo verrà battezzato con il nome di “step-over” ed illuminerà i campi teutonici, il Parco dei Principi, il Bosforo, il Regno di sua maestà,  conquistando anche il Mondiale e le olimpiadi americane. Ma per arrivare fin lì, c’è ancora molto da raccontare. C’è l’aereo che atterra, l’incontro con gli amici, calciatori di quarta divisione tedesca con il Borussia Neunkirchen, e quella domanda che a Jay Jay – nomignolo ereditato dal fratello maggiore – viene dal cuore: «Posso allenarmi con voi?» Finte, giocate di fino, scatti fulminanti e lanci millimetrici, a fine giornata l’allenatore non ha dubbi: «Il ragazzo resta con noi».

In due anni arriverà in Bundesliga, pronto a colorare di follia il grigio calcio della Germania unita, a rovesciare i dettami tattici del rigido Heynches, a capovolgere i capisaldi del colonialismo occidentale, imponendo il suo estro africano sulla omologata e omologante disciplina europea, ad essere un genio eccentrico del quale è impossibile non innamorarsi. Ma ora Toppmoller è stato chiaro: bisogna tenere il pallone e far passare il tempo. Nel corso di uno degli ultimi disperati attacchi però il Karlsruhe si scopre, e nel giro di pochi secondi l’Eintracht si riversa nell’area avversaria. Quando Okocha riceve il pallone è a tu per tu con Oliver Kahn, promettente portiere già in predicato di divenire un’istituzione. Potrebbe cercare il tiro e sperare di non centrare il gigante biondo. Oppure potrebbe cercare di saltarlo e appoggiare in rete, sperando di evitare un eventuale salvataggio dei difensori. Potrebbe, ma non gli verrebbe naturale come improvvisare una danza, che in un crescendo coinvolge tutto il reparto difensivo avversario.

Le gambe del nigeriano si muovono veloci e in maniera apparentemente irrazionale, Kahn rimbalza come una scheggia impazzita da una parte all’altra dell’area, mentre i difensori ormai seguono ipnotizzati il ritmo dettato dal fantasista africano. Una coreografia di pochi secondi ma tuttavia perfetta, che riporta Jay Jay indietro nel tempo. A prima che l’Eintracht lo acquistasse, prima ancora che l’allenatore del Borussia Neunkirchen lo invitasse ad unirsi alla squadra, prima che l’aereo per Francoforte partisse da Lagos. Torna in quel villaggio alle porte di Enugu, a quando per non pensare alla fame usciva per strada con gli amici, trovava qualcosa in grado di rotolare e iniziava a danzare.

Jay-Jay Okocha, le origini della danza
www.storiedelboskov.it

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Checchino Antonini quasi sociologo, giornalista e scrittore, classe 1962, da vent’anni segue e racconta i movimenti sociali e la “malapolizia”. Ha scritto su Liberazione, Micromega Erre e Megafono quotidiano, InsideArt, Globalist, PostIt Roma, Retisolidali, Left, Avvenimenti, il manifesto. Ha pubblicato, con Alessio Spataro, “Zona del silenzio”, graphic novel sul caso Aldrovandi. Con le edizioni Alegre ha scritto “Scuola Diaz vergogna di Stato” assieme a Dario Rossi e “Baro” Barilli. Il suo primo libro è Zona Gialla, le prospettive dei social forum (Fratelli Frilli, 2002)
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