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Che impressionismo a Genova, c’è anche Picasso

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Genova, a Palazzo Ducale fino al 10 aprile la mostra “Dagli impressionisti a Picasso”

 

da Genova, Claudio Marradi

Genova chiama Detroit. E’ un filo diretto che scavalca l’Atlantico quello che unisce due città postindustriali che nella cultura e nel turismo si giocano tutto. O quasi. E che ha portato nel capoluogo ligure 52 capolavori tra Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Monet, Matisse, Modigliani, Picasso, Matisse, Kandinsky… Praticamente un piccolo museo che ripercorre la storia dell’arte moderna e che rimarrà aperto per il suo ultimo rush di esposizione, a Palazzo Ducale fino al 10 aprile nella mostra “Dagli impressionisti a Picasso”, curata da Salvador Salort-Pons e Stefano Zuffi e prodotta da MondoMostre Skira insieme a Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura e che dal 25 settembre ha totalizzato oltre 180 mila visitatori.

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E’ un dialogo tra due vecchie signore del secolo scorso e anche prima, quello che si è instaurato tra l’ex regina dell’industria a partecipazione statale italiana e La celebre Motor city americana. Che condividono il passato glorioso di un mondo che ormai non esiste più: quello delle fabbriche che impiegavano migliaia di addetti, che vendevano sui mercati di tutto il mondo, di città che attraevano con le loro possibilità nuovi residenti ogni anno. Prima che tutto questo svanisse nel nulla o che magari traslocasse, un pezzo dopo l’altro, all’altro capo del pianeta.

Perché la sorte toccata a Detroit, ex capitale dell’industria automobilistica a stelle e strisce – con le sue fabbriche chiuse e abbandonate e le linee di produzione spostate in Cina a caccia del costo del lavoro più basso possibile, con i suoi quartieri residenziali desertificati e sprofondati nel degrado, con un numero di residenti e relative entrate fiscali in caduta libera dagli oltre due milioni di abitanti ai poco più di 700 mila di oggi, fino all’onta della bancarotta da 18 miliardi di dollari dichiarata nell’estate di due anni fa – è un autentico paradigma della forza devastante della schumpeteriana distruzione creatrice del capitalismo. Della sua capacità, vale dire, di perseguire innovazione e nuove possibilità di sviluppo, ritirandosi senza troppi scrupoli da filiere produttive e territori ormai non più redditizi.     E’ la parabola di una città diventata un case study per urbanisti e sociologhi. E, con il suo 60 per cento di bambini in povertà, il 33 per cento dei terreni inutilizzato, la metà delle luci stradali spente e la maggioranza dei parchi chiusa al pubblico, un incubo per gli amministratori cittadini di tutto il mondo. Un baratro che aveva toccato il suo punto più profondo quando l’amministratore non eletto di Detroit, ex avvocato dell’industria specializzato in diritto fallimentare, aveva esercitato i suoi poteri quasi assoluti per escludere i quartieri poveri dai servizi essenziali e per privatizzare i trasporti, la raccolta dei rifiuti e perfino l’illuminazione stradale in tutta la città. Nulla sembrava salvarsi dal suo piano di privatizzazione rapida, che aveva pure preso in considerazione la vendita del prestigioso Detroit Art Institute, con le sue collezioni e il ciclo di dipinti murali realizzati da Diego Rivera nel 1937, dal quale proviene la raccolta di capolavori esposta oggi a Palazzo Ducale. Eventualità sventata all’ultimo momento anche con un’accorta politica di prestiti ed esposizioni itineranti in tutto il mondo che ha salvato le sorti di un’istituzione nata nel 1885 dalla lungimiranza con la quale, già nel 1880, uno dei fondatori del Metropolitan Museum invitava i suoi connazionali americani a “convertire la carne di maiale in porcellane, il grano e i derivati in ceramiche preziose, le pietre grezze in sculture in marmo, le partecipazioni alle linee ferroviarie e i proventi dell’industria estrattiva nelle gloriose tele dei maestri più importanti del mondo”. Nasceva così l’avventura culturale del collezionismo statunitense: uno scambio, per una volta virtuoso, tra pubblico e privato in uno scenario del tutto nuovo per il mercato dell’arte che portò al rapido sviluppo di grandi musei, considerati strategici per la crescita culturale dell’intera nazione. Istituzioni che guardavano al Vecchio Continente come a territorio di una competizione serrata, sostenuta da ingenti risorse economiche, per accaparrarsi i lavori di artisti, come gli impressionisti o lo stesso Matisse, apprezzati prima dai collezionisti americani e solo in seguito scoperti anche in Europa.

Storia antica di un capitalismo forse più “illuminato” di quello della turbo-finanza di oggi. Certamente più intelligente.

 

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